MILANO – Bruce Springsteen torna a San Siro per una doppia data dopo nove anni dall’ultima volta (e a quaranta dalla prima assoluta del 1985), scrivendo un altro pezzo fondamentale della storia che lo lega ormai a doppio filo con lo stadio milanese: due concerti monumentali di quasi tre ore per un pubblico in delirio dalla prima all’ultima delle 28 canzoni suonate, sia lunedì 30 giugno che giovedì 3 luglio.
Due show partecipati, sentiti, attesi e desiderati dopo il rinvio del 2024, caldi e appiccicosi come l’afa tropicale di queste giornate roventi, dove al centro di tutto ci sono sempre Bruce e la sua musica, le canzoni di una vita e – finalmente per chi scrive – anche un messaggio politico, inteso nel senso più alto del termine, ovvero politico poiché riguarda tutti noi, le nostre vite e i valori in crediamo da sempre, dalla libertà ai diritti e alla democrazia: una presa di posizione netta e necessaria di Springsteen rispetto all’amministrazione Trump e, più in generale, a quello che sta diventando il mondo nella sua globalità. Se da un lato trasuda da ogni poro la voglia del Boss di far divertire i circa 60mila di San Siro, dall’altro non nasconde affatto le stoccate al vetriolo contro il presidente statunitense in diverse canzoni e relative introduzioni, prontamente tradotte sui maxischermi dello stadio.
La scaletta della prima data milanese, andata in scena il 30 giugno 2025, ricalca quella standard del tour 2025, praticamente un elenco di hits da cantare a memoria, anche se tutta l’impostazione del concerto guarda sempre all’attualità senza mai dimenticare il diritto alla speranza: ed è proprio questa la rivendicazione principale di Bruce, dare forza e farsi forza per resistere a questo momento storico cupo e distopico; non a caso il tour si chiama “Land of Hope and Dreams Tour“, così come non sono casuali l’inizio affidato a No surrender (cantata assieme al fratello di sangue Little Steven, tornato sul palco dopo l’operazione per un’appendicite fulminante) e la chiusura con Chimes freedom di Bob Dylan. Nel mezzo si alternano inni di fede e redenzione (Land of hope and dreams, The rising, Thunder road), terra promessa e sogni infranti (The promised land, The river, Lonesome day), preghiere e auspici per il proprio paese (Long walk home, My city of ruins, Wrecking ball), rinnovata rabbia di fronte alle ingiustizie sociali che non si attenuano (Badlands, Death to my hometown, Atlantic city, Youngstown, Murder incorporated), sentimenti che travalicano il tempo e aiutano a sopravvivere in questo momento storico così complesso (My love will not let you down, I’m on fire, Because the night, Hungry heart), senza tralasciare – grazie anche ad alcuni interventi parlati – alcune bordate che riguardano direttamente il presidente americano in carica (Rainmaker, House of a thousand guitars e ancora la già citata My city of ruins).
San Siro è la solita bolgia (e non solo per il caldo impossibile di questi giorni), risponde al Boss caricandolo oltre ogni limite, sancendo per l’ennesima volta quel rito laico che si instaura fra Bruce e il suo pubblico ogni volta che suona in Italia e in special modo a Milano. Un esempio per tutti: il boato che ha accolto Springsteen e Van Zandt all’uscita sul palco, dopo lo stop forzato per l’appendicite del chitarrista, è stato qualcosa di indescrivibile!
Nel gran finale, con le luci accese in tutto lo stadio, c’è spazio per dare sfogo a tutta la gioia e all’energia rimasta, con i “soliti” pezzi da 90 del repertorio springsteeniano, a partire dalla fraintesa Born in the USA e passando per l’inno generazionale di Born to run, la celebrazione dell’amicizia in Bobby Jean e quella del legame indissolubile con la “Legendary” E Street Band cantato in Tenth avenue freeze-out, le danze scatenate di tutto lo stadio su Dancing in the dark, fino all’esplosione finale con una torrenziale Twist and shout e la chiusura affidata a una delle canzoni più belle che siano mai state scritte sulla libertà, ovvero Chimes of freedom di Bob Dylan.
La seconda data, svoltasi il 3 luglio 2025, ha ricalcato in buona parte il copione della prima sera: le uniche differenze, a livello di canzoni, sono stati i ripescaggi più che graditi di Prove it all night e Darkness on the edge of town, oltre alla sempre maestosa My hometown e a una Rockin’ all over the world di John Fogerty posta a suggello e chiusura della serata, oltre che del tour europeo. Modifiche di setlist che non hanno comunque in alcun modo influenzato la struttura e il messaggio ultimo del concerto, per il quale valgono le considerazioni fatte per la prima tappa milanese: uno Springsteen in forma splendida nonostante gli anni che passano, una E Street Band maestosa e potentissima, ma soprattutto una netta presa di posizione e un messaggio di speranza e resistenza per sopravvivere a questo momento storico complicato.
In entrambi i concerti tenuti da Bruce Springsteen e dalla E Street Band nello stadio San Siro di Milano le campane delle libertà hanno risuonato in tutta la loro potenza, grazie all’azione di chi come il Boss alza ancora la voce e cerca di smuovere le coscienze per quel che può e riesce a fare: per l’ennesima volta siamo andati a lezione dal più grande performer di tutti i tempi! Grazie Bruce, non sai quanto ci fosse mancato questo tuo ruolo di guida in tempi così oscuri; la terra promessa, quella dei sogni e delle speranze, è ancora là da raggiungere e in parte da ricostruire; sarà una lunga strada per tornare a casa, ma insieme possiamo farcela: ce l’hai dimostrato ancora una volta tu da sopra quel palco, ce l’hai cantato con tutta la rabbia e la poesia di cui sei capace. Sopravvivremo a questo momento storico, ce ne andremo da questa città di perdenti per vincere sul serio, lasciandoci alle spalle le rovine e sputando tutta la rabbia contro i problemi di tutti i giorni: c’mon, rise up!
Matteo Manente