Narra lo stesso Dario Brunori – in arte Brunori SAS – che di fronte a casa sua, in Calabria, ci sia da tanti anni un albero di noci che per lui rappresenta esattamente il punto da cui gli arrivano l’ispirazione, la forza e l’energia positiva per scrivere le canzoni; ma l’albero delle noci in questione, così come ogni altro albero, rappresenta più in generale la perfetta metafora della vita, che grazie a radici ben piantate nella terra, cresce rigoglioso e si rigenera stagione dopo stagione, generazione dopo generazione, dando sempre nuove foglie e nuovi frutti.
È da queste premesse che si origina L’albero delle noci, il nuovo album di inediti di Brunori SAS, pubblicato in concomitanza con la partecipazione dell’artista calabrese al 75° Festival di Sanremo con l’omonima canzone che dà il titolo al nuovo lavoro. Ma come accade ad ogni cantautore che si rispetti, ciascun album nella sua interezza è ben più di un prodotto festivaliero da promuovere durante la settimana sanremese e infatti, anche nel caso di Brunori, L’albero delle noci rappresenta una sorta di romanzo sentimentale dell’artista, un viaggio musicale nelle tappe più profonde del suo vissuto, sulle tracce in un’ipotetica mappa del tesoro interiore che muove dalla recente paternità (L’albero delle noci) e termina con l’emozione d’aver trovato l’amore più vero e assoluto proprio grazie alla nascita della figlia (Guardia giurata).
Questo viaggio nei capitoli dell’esistenza brunoriana parte con l’amore inteso come sforzo titanico per far durare una relazione nel tempo (Per non perdere noi); tocca il già citato tema centrale della paternità cantata direttamente dal palco dell’Ariston (L’albero delle noci), fino ad arrivare ai più classici rapporti di coppia riflessi nel confronto diretto con altre persone osservate dalla panchina di una stazione ferroviaria (Il morso di Tyson): nel brano, molto cinematografico come potrebbero essere tante canzoni di Guccini o Anna e Marco di Dalla, il morso rappresenta la metafora dell’ultimo disperato tentativo di recuperare quello che forse si è perso all’interno di una relazione, come il gesto estremo per salvare il salvabile. L’albero delle noci affronta quindi alcune considerazioni più generali sul senso della vita (La vita com’è), definendo il significato finale di tutto questo vagabondare con un brano scritto per la colonna sonora del film Il più bel secolo della mia vita: vivere al meglio il tempo presente, senza lasciarsi sopraffare dalle ombre del passato (“Avere vent’anni o cento non cambia poi mica tanto, se non riesci a vivere la vita com’è…”). Con il tipico tono ironico-sarcastico di Brunori, il disco prosegue tratteggiando alcuni vizi e abitudini della società sempre più distorta nella quale viviamo (La ghigliottina): “Quante volte ho sentito parlar di campagna alla gente che vive in città, e che loda la vita bucolica, però in campagna poi mica ci sta…”; accenna poi con un ritmo forsennato al delicato equilibrio fra amore e desiderio (Più acqua che fuoco), dichiarando nel brano più rock del disco che l’amore è più forte della tensione erotica e che il sentimento prevale sempre sul desiderio: quest’ultimo, infatti, accende la passione, ma solo la buona pratica quotidiana salva l’amore dal tempo che passa (“I desideri durano un istante, l’amore è una cosa più grande…”). Fra le tracce del nuovo lavoro, il cantautore cosentino ribadisce il forte legame con la propria terra d’origine, sfoderando per l’occasione il dialetto calabrese nella struggente invocazione al Padreterno per una persona cara venuta a mancare (Fin’ara luna), oltre che indagare i complicati conflitti generazionali tra figli e genitori (Luna nera). A suon di tinte jazz che profumano di Jannacci e Paolo Conte, non può mancare il tema delle radici unito a quello del ricordo dell’infanzia intesa come il tempo dell’innocenza ormai perduto, dove – come un novello fanciullo di pascoliana memoria – per il cantautore tutto era ancora possibile (Pomeriggi catastrofici). L’epilogo di questo viaggio nell’anima di Brunori culmina, come già detto, con una dichiarazione di amore assoluto provato dopo la nascita della figlia (Guardia giurata), filtrato attraverso il confronto con la guardia giurata dell’ospedale che vorrebbe impedirgli di entrare per assistere al parto; la voce di Brunori, registrata in presa diretta sul cellulare, incespica e si emoziona nella seconda strofa, tanto da rendere ancora più credibile e vero il sentimento che sta cantando: di fronte alla gioia e all’emozione per una nuova vita che viene al mondo, l’autore si trova nudo e disarmato nel riconoscere ed esaltare la potenza dell’amore assoluto nei confronti della figlia e della propria compagna (“E in quella stanza d’ospedale, tipo la notte di Natale, io, tu e tua madre, per tutta la vita, con tutto l’amore…”).
Come il miglior Dalla o il buon De Gregori – alla cui Rimmel strizza più di un occhio con la sua title-track – Dario Brunori sa cantare e raccontare l’amore e gli umani sentimenti in maniera altamente poetica e soprattutto mai banale, grazie anche a rimandi ad altri capostipiti della canzone d’autore come Battiato, Rino Gaetano, Jannacci e Paolo Conte. Con L’albero delle noci – che forse non raggiunge i vertici poetici di A casa tutto bene, ma avercene oggi di dischi così! – Brunori si conferma come una delle penne migliori della sua generazione: sicuramente è quello che ha assimilato e assorbito nel modo più completo la lezione dei grandi cantautori italiani, riproponendola sempre in maniera personale, ironica e disincantata, donando linfa giovane alla canzone d’autore e gettando una nuova luce nel buio cosmico del panorama musicale nazional-popolare.
Matteo Manente