RADIO FLÂNEUR –
“Pihinì. Tornando al monte”: il “Bringing it all back home” dei Luf

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“Bringing it all back home”, “riportando tutto a casa”. Che si citino Bob Dylan o i Modena City Ramblers, il concetto di fondo è il medesimo: anche i Luf hanno fatto ritorno alla tana da cui tutto è partito, alle montagne dalle quali sono scesi più di vent’anni fa per portare in giro le loro storie sotto forma di canzoni. Dopo tanto girovagare tra palchi e dischi, son tornati sui loro amati monti per riannodare un discorso che, per usare un altro peso massimo della nostra canzone d’autore, si potrebbe definire con il termine “radici”: e non è un caso che tra i tanti riferimenti culturali presenti fra le righe dei versi del nuovissimo Pihinì. Tornando al monte riecheggi come un’ombra sottile anche l’idea di quella “casa sul confine dei ricordi” cantata anni fa da Francesco Guccini, un altro lupo solitario che da anni risiede stabilmente a Pavana, tra i monti e i castagni dell’Appennino e che tanto ha rappresentato nel percorso di crescita e formazione personale di Dario Canossi, da sempre leader e capo-branco dei Luf.

A quasi quattro anni dal fortunato ed acclamato Delaltèr. Verso un altro altrove, concept album dedicato ai migranti e a tutti coloro che si muovevano da qualche parte e per qualche motivo, i Luf sono tornati al monte per consegnarci il settimo disco di inediti della loro carriera, come a chiudere il discorso aperto con Delalter e riportare davvero tutto a casa prima di dirigersi verso nuovi orizzonti. E se Novellara sta ai Nomadi come Pavana sta a Guccini o Filottrano ai Gang, i Luf non potevano che ripiegare sui monti della loro Valcamonica, avvalendosi per l’occasione della collaborazione con alcuni fra i più prestigiosi autori-alpinisti-scrittori italiani come Mauro Corona, Nives Meroi, Erri De Luca, Paolo Cognetti e Max Solinas, che con le loro parole hanno aiutato e ispirato Dario Canossi a tratteggiare questa nuova geografia del racconto, questo nuovo universo di storie legate al mondo montano, un microcosmo popolato da uomini, animali, boschi, rocce e sentieri lungo i quali – al suono di chitarre, violini, fisarmoniche, flauti, cornamuse e mandolini – si intersecano i rispettivi destini.

Alla base di Pihinì. Tornando al monte ci sono quindi il tema del ritorno a casa unito a quello della riscoperta e alla valorizzazione delle proprie radici, dei valori e delle tradizioni dei propri luoghi d’origine, sentimenti che accomunano chiunque abbia viaggiato a lungo e, proprio per questo motivo, è cosciente che per ricaricare le pile prima di nuovi imbarchi sia necessario tornare al proprio buen retiro: che siano la Valcamonica per i Luf, Erto o i boschi intorno al Vajont per Mauro Corona, le Orobie o il Friuli per Nives Meroi, il Veneto di Max Solinas o le Alpi descritte da Paolo Cognetti, Pihinì è il racconto corale di un’Italia che vuole esistere e resistere sulle Terre Alte, fiera delle proprie tradizioni e delle radici ben piantate in quei terreni così scoscesi; un’Italia che, citando il sottotitolo del disco, non solo torna al monte, ma vuole restarci mandando a quel paese il mare e i luoghi solitamente troppo affollati (come cantano i Luf nel brano che chiude l’album, “Sei nato libero, non puoi cambiare, resti sul monte, fanculo il mare…”).

Le inconfondibili note folk del collettivo guidato da Canossi dettano
i tempi di queste nuove passeggiate fra i monti, aprendo il racconto sulle rive
del torrente Grigna con L’aiva la Grigna, cantando di quelle
acque che hanno visto scorrere e rincorrersi le stagioni, le persone e gli
antichi mestieri che si svolgevano in quella piccola civiltà alpina quando i
mulini erano ancora tutti in funzione: “Tu
che ascolti e non capisci, tu guardi ma non vedi, c’era un fiume e ora c’è un
letto dove puoi dormire in piedi, trasportava sassi e legna, acqua al maglio
che cantava, ci lavavi la tua faccia e anche i panni della casa… ora piangono
i bambini con gli amanti clandestini, senza l’acqua ai contadini giran le
balle, non più i mulini…
”.

Partire alla volta del mondo nutrendo in fondo al cuore la certezza che
prima o poi si farà ritorno alla valle e al proprio paese: è questo il sentimento
che permea Dove sarai sarò, primo singolo del nuovo lavoro; una ballata
intensa e dolce al punto giusto, che sa di legna che arde nel camino, di
comunanza che abbatte le distanze di un amore lontano, di un focolare sempre
acceso al quale far ritorno nel momento in cui passato e presente decidono di
riannodarsi per dare forma al futuro che ci attende: “Un pezzo del mio cuore io ti regalerò, ma un sogno resta un sogno, io
non ti sveglierò, per te io sarò un bosco, le mie vene il tuo sentiero, i tuoi
occhi una finestra da dove guardo il cielo… dove sarai sarò, ma dove te ne
andrai io ti seguirò…
”.

L’uso del dialetto camuno è sempre stata una costante nella poetica
dei Luf e anche il nuovissimo Pihinì.
Tornando al monte
non fa eccezione in questo senso: oltre ai ritornelli
dell’iniziale L’aiva la Grigna e della title-track Pihinì – un invito a
recuperare il fanciullino di pascoliana memoria che è dentro di noi per
delineare meglio il senso della nostra vita – la componente dialettale fa
capolino anche nella divertente Le quater meraviglie del mont, in
cui il passato contadino-montanaro viene impietosamente messo a confronto con
la modernità; nonostante certi cambiamenti epocali messi in atto dalla nostra
civiltà, nel Duemila ci sono ancora quattro cose rimaste tali e quali: “il mondo che gira senza mai essersi
ubriacato, gli uccelli che volano nell’aria senza cadere, i pesci in acqua che
non soffocano mai e l’asino che fa i fichi quadri con il buco del culo rotondo…
sono queste le quattro meraviglie del mondo!
”.

Ben più seria risulta invece Pihinì, che oltre a dare il titolo
all’intero lavoro, ne racchiude anche il senso più profondo: “Quando parti la tua strada diventa la tua
casa, ma non scordare mai dove sei nato, quando parti la tua strada diventa la
tua casa, ma non tradire mai chi ti ha allevato, non crescerai se non avrai
radici, non si cammina bene senza amici… Ma adesso che sei vecchio ritrova il
tuo bambino nascosto in un sorriso nelle toppe di Arlecchino e ora che sei
ricco ricompra il tuo bambino o annegherai di notte in un bicchier di vino…
”.

Uno dei brani più intensi ed entusiasmanti di tutto l’album è senza
dubbio Non ti farò aspettare, liberamente ispirato all’omonimo libro
di Nives Meroi e alla vicenda umana
che ha toccato qualche anno fa l’alpinista di origine bergamasca, che durante
l’ascensione al Kanchenjunga ha fermato la propria scalata per soccorrere prima
e accudire poi nella successiva fase di malattia il marito Romano Benet, prima
di riprendere insieme – e vincere! – la sfida di conquistare come coppia tutti
gli Ottomila della terra senza l’ausilio dell’ossigeno supplementare: “Al sentiero del vento non importa chi sarà
la prima, ora chiedo perdono per i passi al Dio della cima, siamo stretti
legati da una corda alla vita, il sorriso ed il pianto, il lamento ed il canto
passan dalle Sue dita… La montagna ci accolga, abbia cura di noi, a due passi
dal cielo, a due tiri dal sogno sarà quello che vuoi… E ogni notte che passa
è un passo un po’ più in là, ma ogni notte che passa passerà, a due passi dal
cielo e non poter più volare, sarò sempre con te, non ti farò aspettare…
”.

A Paolo Cognetti e al suo
omonimo romanzo si rifà senza tanti giri di parole Il ragazzo selvatico, il
cui testo è arrivato in dono nella tana dei Luf direttamente dall’autore de Le otto montagne; tra riferimenti a Into the wild di John Krakauer e
all’Eddie Vedder di Society (“Stai pure senza me, cantavi società,
chiedevi se da solo fosse felicità…
” fa il paio proprio con “Society, you’re a crazy breed, I hope you’re
not lonely without me
…” cantato da Vedder), i Luf incidono un altro
brano-capolavoro, un inno alla solitudine e alla libertà più pura: “E allora vai, e allora vai seguendo l’io
selvatico tu non ti perderai, e allora vai, e allora vai, e allora anche di te
tu libero sarai…
”.

Sempre di testi donati da un autore di montagna alla band camuna si
può parlare per Il lupo e l’equilibrista, i cui versi sono il frutto di un regalo
fatto ai Luf direttamente dallo scrittore e scultore Max Solinas, autore proprio del libro che porta lo stesso titolo e
che molto si addice al gruppo di Canossi: “Ma
anche il lupo più solitario cammina in branco, non il contrario, cammina l’uomo,
diventa lupo, foresta, roccia, neve, dirupo… Ballano il lupo e
l’equilibrista, mano leggera dell’ebanista, luna di legno, legno di faggio, non
è la strada che conta, è il viaggio…
”.

Il canto delle manére prende invece spunto dal titolo dell’omonimo
e famosissimo romanzo di Mauro Corona
per raccontare la ritualità di un gesto tipico dei montanari, quello del taglio
dei boschi, ormai caduto in disuso come la manéra che adoperavano in
quell’operazione: “Taglia, luna lama che
si incaglia, taglia sotto un sole ormai di paglia, ogni giorno una battaglia
con un albero che raglia, ma che presto poi cadrà e allora taglia, taglia,
taglia…
”.

Infine, La leggerezza della crisalide è la trasposizione in musica del
celebre racconto “Il peso della farfalla
di Erri De Luca, che narra dello
scontro finale tra il re dei camosci e un cacciatore che gli dava la caccia da
una vita: “Era re, re di morte e di vita,
camoscio più lupo che vento, cresciuto fedele alla neve, felice ma mai
contento… Vento di zampe e di corna, vento di nuvole e stelle, lo sparo di
occhi di falce fermò il re, gli strappò la pelle…
”.

Oltre alla rivisitazione in chiave luffica della tradizionale Bella
Ciao (O Partigiano)
, che in un disco dedicato alle persone che abitano
o hanno abitato la montagna non stona affatto, Pihinì. Tornando al monte si conclude con due composizioni
originali dei Luf: la prima è Tra vino e cenere, una ballata molto
bella che parla del tempo che passa e della malinconia che generano certi
ricordi: “Sotto le gonne della tua
estate, tra vino e cenere di nostalgia ci sono porte rimaste aperte, è lì che
si infila la malinconia… Ora che dormo col cane ai miei piedi cerco ricordi e
mandorli neri, c’è sempre un libro sul mio comodino, ho scritto il titolo coi
tuoi pensieri, ho scritto il titolo, il resto è il destino, scrivi tu il
finale…
”.

L’ultima traccia è invece Tornando al monte, che con la sua solarità contagiosa ma mai banale e con versi che celano frecciatine non da poco (“La felpa nuova per ogni paese, foto con tutti ma con zero spese, rime di rame, sarà crosta o Cristo, Celeste o azzurro l’abbiam già visto… Prima con Cristo poi coi due ladroni, ridere sempre per tenerci buoni, rimare il mare senza mai remare, poi tutti in barca a festeggiare…”) racchiude in sé buona parte del senso di un album sorprendente e geniale, che ancora mancava nella lunga discografia della band camuna; nessuno, infatti, aveva ancora “osato” proporre un concept dedicato alla montagna nell’accezione più ampia e culturale del termine, segno che Canossi e band covavano questo progetto da tempo, che hanno messo parecchio fieno in cascina e che – per usare un’altra metafora contadino-montanara – hanno lasciato stagionare il tutto finché non son stati convinti che fosse l’ora di pubblicarlo. Adesso, grazie anche all’amichevole collaborazione e partecipazione di tanti autori-scrittori-alpinisti, il tempo è diventato finalmente maturo per tornare tutti insieme verso il monte, verso le nostre radici e verso quelle Terre Alte simbolo di una libertà che solo se condivisa con gli altri membri del branco diventa una libertà da cantare e da ululare al motto di “Ma noi sui monti ritorneremo, rosso di sera sarà sereno, ma noi sui monti ritorneremo, tutti in piedi sull’arcobaleno…”.

Matteo Manente

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