“Aldo Morto” di Daniele Timpano:
l’antiretorica contro verità assolute, miti e sacralizzazioni. La recensione

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LECCO – È sempre difficile parlare di storia in prossimità di ricorrenze importanti, specie se riguardano momenti laceranti del proprio paese, se ricordano tragedie che hanno segnato l’immaginario di un’intera generazione e che hanno condizionato il futuro di quelle successive. I rischi che si corrono sono evidenti osservando le celebrazioni ufficiali e mediatiche del rapimento e, cinquantacinque giorni dopo, del ritrovamento di Aldo Moro. Articoli, editoriali, speciali televisivi, documentari che annunciano di raccontare l’ultima verità, novità editoriali, fiction e film realizzati o rispolverati per l’occasione hanno evidenziato, con qualche meritoria eccezione, da un lato un’eccessiva retorica celebrativa e commemorativa e dall’altro la banalizzazione degli avvenimenti.

Foto @ Margherita Morassi

Completamente diversa l’impostazione dello spettacolo di Daniele Timpano andato in scena venerdì 4 maggio allo Spazio Teatro Invito di Lecco e intitolato Aldo Morto, appuntamento di chiusura della stagione organizzata da Teatro Invito. Un lavoro non nuovo (è infatti del 2012) ma che rappresenta ancora un unicum nel vasto panorama delle produzioni culturali dedicate al rapimento e all’assassinio dello statista. Sì, perché Timpano sceglie la strada più complessa: non racconta nel dettaglio gli avvenimenti, non realizza un santino, non vuole fare controinformazione, non pretende di possedere una soluzione o una verità prestabilita. Anzi, si può dire che lo spettacolo sia una pietra scagliata in faccia a chi si sente in possesso di un punto di vista forte, arrogante come tutte le verità assolute. Un’interpretazione tutta giocata su un continuo lavoro metateatrale di dentro e fuori, di personaggio interno allo spettacolo e narratore distaccato, di vicinanza e lontananza dal soggetto della pièce, di adesione a posizioni politiche e morali e scontro con le stesse. Timpano interpreta nella straniante introduzione un ipotetico figlio di Moro, geloso del suo ricordo e intenzionato a non dividere il padre con il resto degli italiani, ma è anche lo stesso che racconta una vicenda non avendola vissuta: lui, bambino di soli quattro anni al momento dei fatti. L’attore mette alla berlina i brigatisti ma allo stesso tempo quasi aderisce alla necessità della lotta armata contro quello Stato che anche oggi sembra a lui estraneo e nemico. Parla di Moro, l’attore, in maniera distaccata, e poi diventa l’incarnazione del suo santino. Una strategia, questa, che rende quasi impossibile capire la posizione dell’attore, anche perché per lui, come per molti che osservano la vicenda a posteriori, è difficile prenderne una.

Foto @ Margherita Morassi

Uno spettacolo che dimostra come le vicende del Novecento aderiscano ancora alla pelle di chi le ha vissute, ha preso una posizione in quegli anni e difficilmente riesce a concepirle in una prospettiva storica di lunga durata: troppo il coinvolgimento emotivo, troppe le speranze suscitate in quei decenni per distaccarsene e guardarle con occhio obiettivo. Ma il Secolo Breve allunga la sua ombra anche sui figli (lo stesso Timpano), soprattutto quelli che hanno sempre visto gli anni della contestazione come un qualcosa di mitico a cui ispirarsi: anche in loro Aldo Morto smuove qualcosa di importante. E così lo spettacolo penetra nel profondo, infastidisce, provoca e soprattutto demitizza con un’irriverente ironia qualunque cosa: dalle lotte studentesche e operaie con i loro profeti alla Claudio Lolli ai giornalisti banalizzatori e inadeguati (un capolavoro la scena in cui l’attore fa il verso a un Frajese in difficoltà e totalmente fuori luogo sulla scena del rapimento/strage), dai brigatisti rappresentati in maniera ridicola (Faranda e Curcio in primis) ai politici democristiani.

Foto @ Margherita Morassi

Un lavoro antiretorico che sbeffeggia le sacralizzazioni (perfino quelle di Moro) e che rappresenta una rarità nel panorama teatrale italiano, soprattutto in quello di narrazione, sempre molto attento agli argomenti che sollevano questioni di storia contemporanea. Perché Timpano fa una scelta ben precisa: non utilizza gli avvenimenti per sostenere una tesi, non seleziona (come accade troppo spesso) dal passato ciò che gli interessa per piegarlo a prova da portare davanti a un’ipotetica e irreale Storia giudicante. Il regista e attore sceglie invece di proporci uno spettacolo che si regge sul dubbio e sull’incertezza, decide di immergersi in quegli anni non vissuti, porta avanti posizioni per poi smentirle, adombra complotti (come nel caso della stella a cinque punte) che risultano immediatamente ridicoli. Simbolo di tutto questo è, forse, la scena più struggente dell’intera pièce: l’attore che personifica un Renato Curcio con la maschera di Mazinga Z (uno dei nuovi miti in arrivo alla fine dei Settanta) e che racconta la sua vita. Una scena che, come il resto dello spettacolo, provoca fastidio, incomprensione, lacerazioni, domande irrisolte, attimi di adesione e attimi di scontro, che alterna musica di Ramazzotti a citazioni di De André, ma che soprattutto sembra suggerire una profonda amarezza nelle parole di chi voleva fare una rivoluzione violenta e finisce per accontentarsi di vendere pochi libri alle fiere dell’editoria.

Perché è questa l’unica maniera di entrare in contatto con un periodo storico: bisogna sporcarsi le mani e impantanarsi nelle sue contraddizioni, capire che non esistono buoni o cattivi assoluti e che ci sono, invece, cause molteplici per molteplici conseguenze. Lo spettacolo sembra suggerire l’inutilità, quando si parla di Storia, di dividersi in tifoserie a posteriori: l’obiettivo di una ricostruzione efficace, di finzione o meno, dovrebbe essere aprire la mente a nuovi interrogativi. Ed è forse proprio questo il modo migliore per comprendere non solo il passato, ma anche la nostra attualità complessa e contraddittoria, sempre più dominata da grandi semplificazioni e da interessati semplificatori, più seducenti perché più semplici da capire ma falsi e pericolosi. Timpano con Aldo Morto parla quindi molto di più al presente di quanto possa sembrare, perché, per dirla alla Croce, ogni vera storia è storia contemporanea.

Daniele Frisco

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L'autore di questo articolo

Daniele Frisco

È il flâneur numero uno, ideatore e cofondatore del giornale. Seduto ai tavolini di un qualche bar parigino, lo immaginiamo immerso nei suoi amati libri, che colleziona senza sosta e che non sa più dove mettere. Appassionato di Storia e, in particolare, di Storia culturale, è un inarrestabile studente (!): tutto è per lui materia da conoscere e approfondire. Laurea? Quale se non Storia del mondo contemporaneo?! Tesi? Un malloppo sul multiculturalismo di Sarajevo nella letteratura, che gli è valso la lode. Travolto da un vortice di lavori – giornalista, insegnante di Storia, consulente storico e istruttore del Basket Lecco – tra una corsa di qua e una di là ama perdersi nel folk-rock americano, nei film di Martin Scorsese e di Woody Allen, nella letteratura mitteleuropea e, da perfetto flâneur, nelle strade della cara e vecchia Europa. Per contattarlo: daniele.frisco@ilflaneur.com