“Shahrazād”: “Canto di Natale” di Charles Dickens. Una fiaba senza tempo

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Ispirazione? Alito divino? Che cosa accende il cuore del poeta quando si accinge a mettere su carta i suoi pensieri? Quale forza genera e plasma una storia che sta per nascere? È sorprendente pensare all’immensità dell’universo narrativo che ci circonda: i racconti, come la fantasia e come le stelle, sono infiniti e si accendono attorno a noi continuamente. Poche lettere combinano infinite parole che, avvicinate e tessute insieme, originano altrettante storie. Raccontare è da sempre un modo per affermare il proprio mondo, per dare sfogo all’immaginazione. È una strada per vivere altrove nel tempo e nello spazio, per porre domande e cercare risposte. È un modo per prendersi cura di sé e degli altri. Ascoltare un racconto o leggere un libro è guardare dentro la mente del suo scrittore. E ci chiediamo:  come ha fatto, questa storia, a nascere proprio lì?

Non potremo mai sapere cosa fece scaturire nel trentunenne Charles Dickens la fantasia che lo portò a pubblicare, il 19 Dicembre del 1843, il capolavoro A Christmas Carol. Quello che sappiamo, però, è che l’autore volle entrare nel racconto e farsi narratore dentro la storia, per condurre i lettori di tutti i tempi in un viaggio strabiliante nella notte più magica dell’anno, in cui sentire e riscoprire il vero spirito del Natale.

cantoTutti conoscono il Canto di Natale di Dickens, o per averlo letto, o per averlo ascoltato o visto nelle sue numerose rappresentazioni teatrali e cinematografiche. Allora, perché parlarne? La risposta è racchiusa nella straordinaria attualità di questo racconto, che è una fiaba fantastica ai limiti del surreale e un viaggio di formazione, insieme. L’atteggiamento stitico e ottuso di Ebenezer Scrooge, il noto protagonista del racconto, è l’iperbole di un’inclinazione che abbiamo tutti: affaccendati come siamo nei nostri impegni, sempre più chiusi e ostili verso il nuovo e verso il diverso, rischiamo di perdere di vista ciò che davvero conta. La famiglia, per esempio, e gli affetti, di cui proprio in questi giorni di festa riscopriamo il calore e la bellezza.

Il gusto gotico che scorre in filigrana nelle pagine di tutto il racconto ci tiene sospesi e come intrappolati nella lettura: il batacchio del vecchio portone inghiottito nel buio improvvisamente si deforma nel viso truce del vecchio Marley, socio in affari di Scrooge ormai defunto, è il primo elemento che ci immerge nell’atmosfera del racconto, un canto di cinque strofe il cui tema portante è la memoria calata in un nero fantastico: «E poi qualcuno mi spieghi, se lo può, come fu che Scrooge,  dopo aver infilato la chiave nella serratura dell’uscio, vide nel batacchio, senza che questo subisse il benché minimo mutamento intermedio, non più un batacchio ma il viso di Marley».

Il narratore, aedo, cantore, si protende ammiccante e amico verso l’ascoltatore con cui, in modo graduale, stabilisce una complicità rassicurante. Un lettore lasciato a se stesso tra queste pagine sarebbe facilmente sopraffatto dall’inquietudine, se non dalla paura, e camminerebbe in punta di piedi sul filo del racconto per timore di cadere in buchi oscuri, perdendosi, così, il gusto di leggere.

Alla comparsa del fantasma del primo spirito, quello mutevole, vecchio e bambino, del Natale passato, il narratore deve restare vicino al lettore, accanto a lui, per non perderlo: «Le cortine furono scostate, credetemi, da una mano. E Scrooge si trovò a faccia a faccia col visitatore ultraterreno che le aveva tirate; così vicino come lo sono io adesso a voi, io che, in spirito vi sto per così dire a gomito a gomito».

Sapere di avere un amico nel racconto conforta chi legge, nell’Ottocento come oggi e come in futuro. Il lettore sa di potersi fidare di lui ed è pronto ad aggrapparsi alla veste dello spirito e a visitare con Scrooge alcuni dei suoi episodi di Natale passato, momenti piccoli, di gioia luminosa e di lacrime tristi di solitudine. Ormai il vecchio Scrooge ci è familiare, riusciamo a sentire le sue emozioni per troppo tempo assopite e così forti e pulsanti nel suo cuore. La sua stanza buia e fredda, il suo letto dalle pesanti cortine diventano un po’ anche nostri.

Quando la torcia alta dell’«allegro gigante magnifico a vedersi» di questo Natale bagna di luce la notte, siamo pronti a sorvolare con Scrooge le scene di vita del Natale presente. Impariamo che Natale è semplicità e ci sentiamo pervadere dallo spirito natalizio, che non è niente più che allegria e senso di bellezza: «Non vi era nulla di piacevole nel clima, né nella città, eppure aleggiava dappertutto un’aria di allegria quale la più serena giornata estiva e il più splendente sole avrebbero invano cercato di creare».

Scrooge ha dimenticato da tempo cosa significhi famiglia, ha lasciato cadere ogni aspirazione di bene per «lasciarsi dominare completamente da quella passione sovrana che è l’interesse». Il fantasma gli mostra cosa si sta perdendo, le occasioni di festa, le possibilità di fare del bene, di amare e di essere amato. Prima di lasciarlo, ormai vecchissimo ed emaciato, lo spirito del Natale presente mostra a Scrooge i figli dell’uomo, l’Ignoranza e la Miseria, raccomandandogli di guardarsi da loro che sono la condanna dell’umanità.  E proprio quando ci sembra di avere imparato la lezione e di sentirci migliorati insieme al protagonista di cui ormai siamo amici, eccoci di fronte al più terribile dei fantasmi, quello del Natale futuro, muto ed impietoso.

Dentro la sua nera ombra, Scrooge osserva la sua misera fine: ricchissima e odiata, nella completa solitudine. Ciò che più lo commuove e che lo convince a redimersi e cambiare è il destino del piccolo Tiny Tim, il figlioletto malato del suo scrivano Cratchit, troppo debole per sopravvivere agli inverni della vita. Riaffioriamo dal mare di emozioni in cui siamo stati travolti rigenerati. Scrooge è cambiato: «diventò il migliore degli amici, il migliore dei padroni, il migliore degli uomini della vecchia città, di ogni altra vecchia città, paese o borgo del buon vecchio mondo».

Grazie a Scrooge, nato dal genio di Charles Dickens, impariamo a ridere e a gioire, ad apprezzare il bello che abbiamo. Ecco lo spirito natalizio, che non si limita al Natale e ai suoi giorni di festa, ma che diventa uno stato del cuore: «Il suo cuore era tutto un sorriso, e ciò era per lui più che sufficiente».

Ecco, il potere della letteratura.

Claudia Farina

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L'autore di questo articolo

Claudia Farina

È la più piccola dei flâneurs, con una chioma ribelle e un sacco di sogni. Fin da bambina innamorata del racconto e delle parole, saltella tra una storia e l’altra, tra la pagina e la vita. Laureata in Lettere Moderne, è alla ricerca costante di nuove ispirazioni e di luoghi dove imparare. La tesi sulla narrazione nella musica di Wagner è stata un colpo di testa (e un colpo di fulmine!). Suona il clarinetto da (un po’ meno di) sempre, ama la musica, l’amicizia quella vera, la natura, lo stupore e la Bolivia, che porta nel cuore. Crede negli incontri che cambiano la vita e la rendono speciale, come quello con Il Flâneur! Pensa molto (forse, troppo). Le piace viaggiare e scoprire il mondo, fuori e dentro i libri. Nella scrittura si sente a casa ed è convinta che la cultura, passione ribelle, sia davvero in grado di cambiare il mondo.