“Shahrazād” – “Persone normali” di Sally Rooney. Autosabotaggio di una felicità annunciata

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«Connell suona il campanello e Marianne va ad aprire. Ha ancora addosso la divisa scolastica ma si è tolta il maglione, per cui è in gonna e camicetta, e senza scarpe, solo con i collant. Oh, ciao, dice lui. Entra. Si volta e si avvia per il corridoio. Lui la segue, chiudendosi la porta alle spalle»

Se è vero che l’incipit di un romanzo contiene in sé l’intera storia, qui è la prima frase a farlo: Connell suona il campanello e Marianne va ad aprire. Così inizia Persone normali (Einaudi, 2019), il secondo romanzo di Sally Rooney, la ventottenne irlandese che  con il suo romanzo d’esordio, Parlarne tra amici (Einaudi, 2018), si è imposta sulla scena letteraria contemporanea, riscuotendo applausi e critiche e aggiudicandosi il Sunday TImes/PDF Young Writer Award 2017.

Con il suo inizio in medias res, Persone normali getta subito in scena i personaggi e non dà a chi legge il tempo di ambientarsi. Frasi brevi, dialoghi, punti fermi: al lettore si chiede di osservare e di entrare nel ritmo della scrittura, che è veloce, incalzante.

Ambientata nell’adesso, la storia accade sulla pagina, le scene si svolgono al presente e i due protagonisti appaiono così, liceali appena tornati da scuola, uno – Connell, bello, sportivo, popolare e povero – che suona al campanello dell’altra – Marianne, solitaria, indipendente, emarginata e ricca – che gli apre la porta e lo fa entrare.

Ed è questo, più o meno, il nocciolo del loro legame: un continuo cercarsi e incontrarsi che il libro racconta in episodi sparsi che vanno dal 2011 al 2015, intervallati da grandi e piccole pause di crescita e cambiamenti.

Un legame naturale, quello tra Connell e Marianne, di quelli che non hanno una spiegazione o un’origine ma nascono dal riconoscimento reciproco. Riconoscersi ma non riuscire a dirselo, per vergogna, all’inizio, poi per la paura del giudizio; per paura di perdersi e per i non detti; per l’incontro con altre persone, per la ricerca di un’altra strada possibile e perché a volte, in fondo, ciò che è normale sembra irraggiungibile. Come un miraggio, la normalità è ciò che i due protagonisti desiderano, ma che non riescono a raggiungere: niente sembra mai abbastanza, niente soddisfa davvero e il passato torna continuamente, interferisce con il presente e ne ostacola la realizzazione.

Per tutto il libro, la narrazione oscilla tra l’oggi e il ricordo, la rievocazione di episodi avvenuti nel passato prossimo e che tengono insieme la trama.

«Venerdì scorso, dopo, mentre erano lì sdraiati, lei ha detto: È stato intenso, no? Lui le ha detto che lo trovava sempre abbastanza intenso. Ma intendo quasi romantico, ha detto lei. Credo che a un certo punto ho iniziato a provare dei sentimenti per te. Lui ha sorriso al soffitto. Devi semplicemente reprimerli, Marianne, ha detto. Io faccio così. Marianne in realtà sa cosa prova per lei. Il fatto che davanti ai suoi amici diventi schivo non significa che tra loro non sia una cosa seria – anzi».

I dialoghi naturali e convincenti e la voce narrante in terza persona che scivola di volta in volta dal punto di vista di Marianne a quello di Connell, fanno sentire il lettore vicino ai personaggi e gli permettono di sentire ciò che provano. Probabilmente è questa la chiave del libro: la brevità e l’asciuttezza (quasi durezza) stilistica comunicano immediatamente al lettore quello che i personaggi non riescono a dirsi. Lieve e “normale”, il tono dei dialoghi suona familiare al lettore, che si riconosce in alcuni pensieri e comportamenti dei protagonisti e, o empatizza con loro, o gli grida di svegliarsi, che è il momento di parlare, è il momento di agire.

A ogni incontro sfiorare la felicità e lasciarsela scappare, senza afferrarla; tendere a una normalità che probabilmente non si può – o non si vuole – raggiungere. Autosabotarsi per paura del lieto fine. È ciò che capita ai protagonisti del libro e che, per l’universalità della sua portata, tiene noi lettori incollati alle pagine, per una notte intera: si ha fretta di sfogliare, di vedere che cosa succede ai protagonisti, capitolo dopo capitolo.

E, come in tutte le storie di persone normali, la fine non è una vera fine: assomiglia, piuttosto, a un nuovo inizio.

Claudia Farina

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L'autore di questo articolo

Claudia Farina

È la più piccola dei flâneurs, con una chioma ribelle e un sacco di sogni. Fin da bambina innamorata del racconto e delle parole, saltella tra una storia e l’altra, tra la pagina e la vita. Laureata in Lettere Moderne, è alla ricerca costante di nuove ispirazioni e di luoghi dove imparare. La tesi sulla narrazione nella musica di Wagner è stata un colpo di testa (e un colpo di fulmine!). Suona il clarinetto da (un po’ meno di) sempre, ama la musica, l’amicizia quella vera, la natura, lo stupore e la Bolivia, che porta nel cuore. Crede negli incontri che cambiano la vita e la rendono speciale, come quello con Il Flâneur! Pensa molto (forse, troppo). Le piace viaggiare e scoprire il mondo, fuori e dentro i libri. Nella scrittura si sente a casa ed è convinta che la cultura, passione ribelle, sia davvero in grado di cambiare il mondo.