RADIO FLÂNEUR – “Strictly a one-eyed Jack” di John Mellencamp. Nuovo roots-rock per il coguaro che non smette mai di emozionare

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John Mellencamp è sempre più dylaniano nei suoni e dilaniato nella voce, tanto da ricordare a tratti Tom Waits, ma da qualche anno a questa parte non sbaglia più un disco che sia uno; l’ultima fatica discografica del rocker dell’Indiana si intitola Strictly a one-eyed Jack e conferma il trend avviato coi precedenti Plain spoken (2014) e Sad clowns and hillbillies (2017): i fasti rock degli anni Ottanta sono ricordi ormai lontani nel tempo e oggi hanno lasciato spazio a quel mix di folk, country e blues al quale Mellencamp ci ha abituati da almeno un paio di decenni, con lavori sempre più improntati a un roots-rock che affonda le sue radici nella tradizionale Americana. Niente più Jack and Diane, né Scarecrow o Lonesome jubilee a indicare la rotta musicale fra muscoli in vista e il vento in poppa degli anni ’80, bensì chitarre acustiche, slide, armoniche, violini e fisarmoniche per raccontare nuove storie di eroi sconfitti ma non vinti, di vite passate ai margini che sanno di polvere, sudore e fatica quotidiana. Il tutto filtrato da una voce ruvida, che sa di vita vissuta e al tempo stesso mangiata dal fumo di troppe sigarette, fumate apposta nei decenni per ottenere un tale livello di profondità, tanto roca quanto ricca di sfumature avvolgenti.

Il nuovo lavoro di Mellencamp appare fin da subito come una summa delle puntate precedenti: un disco scuro, ombroso, che non concede troppe speranze o indulgenze verso quello che il cantante-narratore vede intorno, ma al tempo stesso suonato e arrangiato da musicisti fenomenali che donano alle canzoni del cantautore americano una sontuosità e una bellezza rare nel panorama del rock a stelle e strisce. La voce fumosa di Mellencamp, unita a testi mai scontati, a una forma compositiva in gran spolvero, ad arrangiamenti praticamente perfetti e alla presenza di Bruce Springsteen come ospite in tre brani, fanno di Strictly a one-eyed Jack un album che si fa ascoltare dall’inizio alla fine, senza distrazioni né smarrimenti o cedimenti lungo la strada. Fra i temi ricorrenti dell’album, ci sono la menzogna dilagante in ogni ambito della nostra vita (I always lie to strangers, Lie to me, Did you say such a thing, Streets of Galilee), il tempo che passa inesorabile per tutti (Wasted days, Driving in the rain, A life full of rain) e uno sguardo sempre in bilico fra il cinismo e il disincanto sul mondo circostante e sulla propria vita personale (I am a man that worries, Simply a one-eyed Jack); tutto questo è ben espresso nel contrasto lampante fra testi amari e oscuri opposti a una musica a volte più dolce e speranzosa (Chasing rainbows) e altre comunque tesa e scura (Gone so soon, Sweet honey brown).

Già dalle prime note dell’iniziale I always lie to strangers, c’è un lento mettersi a nudo di Mellencamp, che con voce roca e appena sussurrata canta dell’esigenza che in molti, lui compreso, hanno di fingere o di mentire: “This world is run by men much more crooked than me, and as far as I can see I don’t trust you, and you shouldn’t trust me, I always lie to strangers…”. Sullo stesso tema si basa Lie to me, un blues che punta il dito contro un mondo di falsi e imbroglioni, un mondo dove ciascuno mente a sé stesso e agli altri soltanto perché tutti fanno così: “So lie to me, well the churches and the preachers do, so lie to me, the history books and the teachers did too…”. Quello del Mellencamp settantenne è uno sguardo amaro e cupo sul mondo circostante, un mondo falso dal quale arrivano solo cattive notizie, come canta con voce catramosa nel blues sporco di I am a man that worries: “Worries occupy my brain, I’m worried about tomorrow, I worry about today, I’m worried about the words I’m hearing, I’m worried about all this bad news…”. Un mondo, quello odierno, che il cantautore americano descrive nell’ottima Simply a one-eyed Jack come pieno di gente come il Jack da un occhio solo che gioca ad avere soldi e potere (“Money and power is the name of the game…”), un mondo dal quale vorrebbe scappare per diventare un cantante folk: “I’d like to go somewhere safe, watch the world as it changes and become a folk singer, sing a song that stops corruption and pain, but there’s no reason for that now, we’re a long way somehow, we’d better make a move or become the victim of that lying one-eyed Jack…”. Un mondo, in definitiva, al quale secondo Mellencamp bisogna prestare molta attenzione: anche nella stratosferica Streets of Galilee – una ballad in puro stile Dylan, con pianoforte e acustica in evidenza a richiamare capolavori come Ballad of a thin man – emerge il monito a diffidare delle illusioni e dagli inganni che provengono dai pensieri altrui: “If you think you see something in me and there’s something that you can believe, it’s your own illusion that you see, you’re just lost in the dark on the streets of Galilee…”.

Tra falsità e menzogna imperante – scandite da brani lenti come il notturno e jazzato Gone so soon o blues più oscuri come Sweet honey brown, una prima scossa avviene con Did you say such a thing, un sussulto rock in stile John Fogerty cantato a due voci con l’ospite del disco, ovvero Bruce Springsteen. Se Did you say such a thing ha un’impronta molto rock – nella quale spicca il suono della Telecaster e si sentono echi di Pink house o del Boss anni Ottanta, con un testo che punta il dito sulle voci e i pettegolezzi messi in giro dalla gente (“Word out in the papers you’ve been talking smack about me, did you say such a thing? What people say about me don’t amount to much, I guess it some may be true, but who can you trust, did you say such a thing?”) – tutt’altro sound avvolge il secondo duetto fra Mellencamp e Springsteen: Wasted days, manifesto a due voci sul tempo che scorre per tutti, è un folk-country veramente riuscito, una canzone che vede due veterani del rock invecchiati e seduti a un tavolino mentre parlano dei bei tempi andati, con un filo di rimpianto e maggior consapevolezza per aver vissuto al meglio le rispettive vite e carriere; un brano perfetto, nel quale non c’è arrendevolezza per i glory days di un tempo, ma piuttosto accettazione serena per quello che è stato: “How many summers still remain? How many days are lost in vain? Who’s counting out these last dramatic years? How many minutes do we have here? Wasted day, we watch our lives just fade away to more wasted days…”. Sempre legato al tema del tempo che scorre, va menzionata anche la bellissima Driving in the rain: un lento e melodico country-folk nel quale Mellencamp racconta di quanto il tempo che è trascorso non sia in realtà andato verso un futuro tanto migliore: “When I was young responsibilities were none, when I did wrong it was fun and there was no work to be done, but now all has changed, remembering the pain of driving in the rain…”.

Di fronte a tanto sconcerto e apparente oscurità, l’unico spiraglio di speranza è rappresentato dalla solare Chasing the rainbows, un bellissimo brano folk che richiama coi suoi fiati e violini alcuni episodi tipici di The Band: “At the end of the rainbow turns out it’s not somewhere, Look around, it’s everywhere for anyone who cares…”. A concludere uno dei lavori meglio riusciti di John Mellencamp da molti anni a questa parte, ci pensa la terza e ultima collaborazione con Springsteen, questa volta accreditato solo alla chitarra: A life full of rain è un lento per pianoforte, fisarmonica e chitarra senza grandi speranze per un domani che si preannuncia ancora carico di pioggia e di problemi, il perfetto epitaffio per un disco come Strictly a one-eyed Jack, che mette la parola fine a un disco davvero riuscito e centrato, con canzoni sempre ben scritte, arrangiate e godibilissime, da apprezzare meglio al lume fioco di una candela piuttosto che da cantare all’unisono all’interno di uno stadio.

John Mellencamp va preso per quello che è, con tutte le asperità del carattere burbero che ha sempre avuto e con l’accettazione del percorso roots e country che ha intrapreso negli ultimi decenni, a scapito di un rock più diretto e d’impatto che l’aveva reso celebre negli anni Ottanta; ma allo stesso tempo non si può non considerare che l’ex coguaro dell’Indiana rimanga – forse più adesso che venti o trenta anni fa – uno dei migliori songwriter americani, meno considerato e apprezzato dalla nostre parti solo per la sfortuna di aver avuto davanti mostri sacri del rock come Bob Dylan, Bruce Springsteen o Tom Petty: eppure sempre di altissima classe si tratta e il nuovo Strictly a one-eyed Jack non fa altro che confermare tutte le grandissime qualità che da sempre contraddistinguono John Mellencamp.

Matteo Manente

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