“Il legionario” alla Mostra del cinema di Venezia
Intervista al regista italo-bielorusso Hleb Papou

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Reduce dalla sua prima esperienza alla Mostra Internazionale d’Arte Cinematografica di Venezia, abbiamo fatto due chiacchiere con il regista italo-bielorusso Hleb Papou, in Italia dal 2003, stabilitosi prima a Lecco e poi a Roma, dove si è diplomato in regia al Centro Sperimentale di Cinematografia dopo la laurea al DAMS. Alla Settimana Internazionale della Critica, nella sezione Sic@Sic, ha presentato il suo cortometraggio Il legionario, saggio di diploma del giovane cineasta al CSC.
Hleb, di cosa parla “Il legionario”?
Il legionario racconta la storia di un agente del Reparto Mobile di Roma, figlio di immigrati africani, nato e cresciuto nella Capitale. Un giorno scopre che la sua Squadra dovrà andare a sgomberare un palazzo occupato, dove vive la mamma con il fratello. Scisso fra l’amore per la famiglia e la fedeltà al Corpo della Polizia dovrà decidere da che parte stare e andare fino in fondo.
Com’è nata l’occasione di partecipare e come hai vissuto la tua prima esperienza alla Mostra del Cinema?
Il legionario è il saggio finale di diploma e solitamente si cerca sempre una buona anteprima per presentare il lavoro finale. Un passaggio, questo, che bisogna fare il prima possibile per iniziare poi a inviare il lavoro a tutti gli altri festival e fare una proiezione pubblica. A giugno ho letto che stava scadendo il bando per la Settimana della Critica e senza avvisare nessuno ho partecipato. Dopo quattro giorni mi è arrivata la lettera ufficiale d’invito. Sono molto contento perché credevo in questo lavoro nonostante il tema per qualcuno magari ambiguo, visto che il protagonista è un poliziotto nero.
hleb3Una tematica e un contesto in cui è molto facile strumentalizzare ogni cosa. Hai pensato a questa problematica quando hai iniziato a lavorare al progetto?
No, noi volevamo raccontare semplicemente il fenomeno delle seconde generazioni. Ciascuno ha il diritto di scegliere che strada percorrere, quindi anche entrare nella Polizia, rappresentare lo Stato e le Istituzioni. L’obiettivo era di raccontare una storia viva, vera e sincera. Raccontarla senza entrare nel conveniente e senza avvalerci di furbizie lacrimevoli, senza raccontare qualcosa in cui nemmeno noi credevamo, al solo scopo di suscitare lacrime nel pubblico.
Quando sei venuto a conoscenza dei fatti di Piazza Indipendenza a Roma (il maxi sgombero di rifugiati e richiedenti asilo di fine agosto), a cosa hai pensato?
Non sono rimasto molto stupito perché avevamo fatto molte ricerche sul campo ed essendo entrati nelle case occupate di Roma avevamo già visto questo fenomeno da vicino. Un fenomeno che esiste già da molti anni. Sicuramente è stato un paradosso e una coincidenza, ma il nostro obiettivo era parlare di seconde generazioni e mettere a confronto due persone, italiane, che si ritrovano dall’altra parte della barricata: poliziotto e occupante. Sono due lati di ciascun essere umano. Abbiamo girato il corto a settembre 2016 e nessuno si aspettava minimamente questa sovrapposizione.
La ricerca sul campo come si è svolta?
All’inizio siamo entrati nella caserma del Reparto Mobile, abbiamo conosciuto celerini veri e poliziotti di altri reparti, tra cui un poliziotto nero e italiano. Abbiamo ascoltato le loro esperienze e sono stati molto disponibili. La storia è piaciuta a tutti, al di là delle loro idee politiche. Abbiamo capito come funziona il Reparto Mobile e come ragionano i poliziotti, anche per la costruzione del personaggio del celerino. La stessa cosa l’abbiamo fatta con la rete delle case occupate. L’interpretazione e il punto di vista cambia a seconda di chi guarda il film, ma il nostro obiettivo era rappresentare dei protagonisti vivi, che possano piacere o meno.
Hai scritto questo cortometraggio insieme a Giuseppe Brigante ed Emanuele Mochi. Da dove nasce questa collaborazione?
hleb2Ci siamo conosciuti al primo anno del Centro Sperimentale e da lì abbiamo iniziato a scrivere molte cose insieme e stiamo proseguendo anche al di fuori della scuola.
Il tuo primo corto è stato “La foresta rossa”, con il quale sei entrato al Centro Sperimentale e sei stato selezionato allo Short Corner del Festival di Cannes. Qual è stato il cambiamento maggiore che hai notato nella tua evoluzione artistica in questi anni?
La differenza sostanziale e pratica è che La foresta rossa l’ho fatto da solo e con 20 euro di budget, mentre Il legionario è stato realizzato insieme a una ventina di persone e con un budget di 16.000 euro. Il mio approccio è totalmente cambiato, ho cercato di mantenere una mia sensibilità, che a scuola è molto facile perdere. Il mio obiettivo era avvicinarmi al genere drammatico e d’azione. Volevo raccontare questo genere di storia e volevo fosse una storia intelligente.
I primi lavori di molti registi celano spesso già la loro poetica e che tipo di storie interessa loro raccontare. Hleb è già consapevole di quali tipi storie vorrà raccontare in futuro?
In realtà non lo so, adesso voglio raccontare questo tipo di storia. Più avanti vedremo. Insieme a Giuseppe Brigante ed Emanuele Mochi abbiamo vinto il premio Mutti alla Cineteca di Bologna per un nuovo lavoro e la storia sarà per certi versi molto simile a quella de Il legionario, perché coinvolgerà una ragazza di origine nigeriana che collabora con la Questura di Roma come interprete delle intercettazioni. A un certo punto dovrà scegliere se tradurre bene una particolare intercettazione e condannare la donna sospettata di aver ucciso un uomo, oppure se mentire e riuscire a salvarla.
Qual è, a tuo avviso, la difficoltà maggiore per un giovane ragazzo che vuole fare cinema ed esordire in questo mondo?
hleb1Penso che la questione che ti può differenziare dagli altri, a prescindere dall’età, è avere la voglia di raccontare qualcosa di sincero e diverso. Diverso da quello che tutti quanti vogliono raccontare. Questa, forse, può essere l’arma in più: raccontare qualcosa che altri non hanno mai raccontato.
Davide Sica
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Davide Sica