Frammenti di un’Europa smarrita
La recensione di “Human” di Marco Baliani e Lella Costa

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LECCO – Quali sono i valori fondanti della civiltà europea? Un problema da sempre molto dibattuto a livello filosofico, politico e storiografico che, più di un decennio fa, aveva anche acceso un vivace e duro dibattito scaturito dalla stesura della carta costituzionale europea, progetto poi abbandonato. Studiosi, filosofi, politici, tutti a interrogarsi su quali fossero le radici di un’idea e di un continente: chi voleva porre l’accento sulle radici giudaico-cristiane, chi sulla classicità greca, chi parlava invece della prevalenza delle idee illuministe. Sembra passata un’eternità. Nessuno avrebbe mai immaginato che in poco più di dieci anni una delle cose su cui facevamo più affidamento, l’unità e la continua integrazione europea, sarebbe stata messa pesantemente in discussione dagli stessi stati nazionali e dalle stesse ideologie nazionaliste che nella prima metà del secolo scorso avevano per due volte portato il continente alla sua autodistruzione. Verrebbe piuttosto da chiedersi, oggi, se esistano ancora valori unitari in un’Europa che si chiude dietro muri e fili spinati e che rischia, mai come in questo momento storico, di scomparire come soggetto unitario.

@ Zani Casadio

@ Zani Casadio

Tristi riflessioni, queste, che non possiamo esimerci dal fare dopo la visione di Human, spettacolo di Marco Baliani e Lella Costa andato in scena nella serata di sabato 12 novembre al Teatro della Società di Lecco. Sì, perché la pièce – una raccolta di quadri, situazioni, discorsi che abbiamo sotto gli occhi tutti i giorni alternati a miti più classici – parla a tutti noi senza quasi mai prendere una posizione definita e retorica. Marco Baliani ci fa guardare allo specchio: siamo lì, davanti al televisore, presi da vicende quotidiane certo difficili e complesse, ma che perdono improvvisamente valore se paragonate all’esperienza di chi, per avere una piccola possibilità di sopravvivenza, decide di rischiare la vita nel nostro mare. Un mare che dall’antichità ha unito ma anche diviso, che è stato comunque e sempre una via di fuga, o almeno una speranza. Una speranza per Enea, profugo in fuga da Troia, per Ero che scruta l’Ellesponto nell’attesa di Leandro, per le centinaia di migliaia di migranti che solcano le acque sperando forse di sopravvivere e che partono, citando proprio un dialogo dello spettacolo, proprio per quel forse, sicuramente molto più attraente della loro condizione nei paesi natii.

I frammenti di vita tratteggiati da Human, è vero, non sono tutti dello stesso livello: alcuni sono, infatti, meno riusciti e poco di impatto, altri rischiano di essere un po’ troppo scontati e alla lunga quasi ripetitivi. Ma c’è qualcosa nello spettacolo che rimane e non si toglie di dosso. Un sentimento dettato da una rappresentazione che ha sicuramente qualcosa da dire, anche se non lo esplicita, grazie a una struttura unitaria, nonostante lo spettatore venga scaraventato avanti e indietro nel tempo e nello spazio e si alternino registri recitativi diversi. Si piange e si ride, infatti, e Lella Costa riesce in entrambe le cose. Ci fa sorridere nei panni della tipica signora veneta della classe media: simpatica, brava persona, ma infarcita di luoghi comuni che riempiono televisione e social network. Una donna, quest’ultima, che viene messa in crisi dalle semplici e intelligenti considerazione della sua amica Iole, che frequenta l’Università della Terza Età. Perfetta l’attrice anche nell’interpretazione agrodolce della langarola di inizio Novecento, vestita di stracci e spaesata a Ellis Island. E poi arriva il dramma ed è quello di una donna con bambino che, senza cibo né acqua, attraversa il deserto e che si rivela essere nient’altro che Maria con Gesù, in fuga verso l’Egitto. Scena, questa, che si conclude magnificamente con un suggestivo tableau vivant dell’opera di Caravaggio Riposo durante la fuga in Egitto.

human-1Quadri diversi, quindi, ma che, come già detto, sembrano essere tenuti costantemente legati da un qualcosa di solamente percepito, da rintracciare di sicuro nella scenografia di Antonio Marras: centinaia di vestiti lasciati sul palco e che compongono il fondale, gli stessi vestiti spettrali che ormai popolano le spiagge delle isole greche e italiane. E poi le luci quasi caravaggesche di Loïc Francois Hamelin e Tommaso Contu, anche loro utili a dare quell’idea di compattezza cromatica a tutto il segmentato racconto di Baliani. Ma più di tutti il merito va alle riuscite musiche originali di Paolo Fresu, che accompagnano malinconiche ed evocative i personaggi, creando un fil rouge che rende coeso e coerente il percorso narrativo.

Daniele Frisco

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L'autore di questo articolo

Daniele Frisco

È il flâneur numero uno, ideatore e cofondatore del giornale. Seduto ai tavolini di un qualche bar parigino, lo immaginiamo immerso nei suoi amati libri, che colleziona senza sosta e che non sa più dove mettere. Appassionato di Storia e, in particolare, di Storia culturale, è un inarrestabile studente (!): tutto è per lui materia da conoscere e approfondire. Laurea? Quale se non Storia del mondo contemporaneo?! Tesi? Un malloppo sul multiculturalismo di Sarajevo nella letteratura, che gli è valso la lode. Travolto da un vortice di lavori – giornalista, insegnante di Storia, consulente storico e istruttore del Basket Lecco – tra una corsa di qua e una di là ama perdersi nel folk-rock americano, nei film di Martin Scorsese e di Woody Allen, nella letteratura mitteleuropea e, da perfetto flâneur, nelle strade della cara e vecchia Europa. Per contattarlo: daniele.frisco@ilflaneur.com