Il teatro secondo Gabriele Di Luca. Intervista al fondatore di Carrozzeria Orfeo

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Dopo le repliche al Teatro Elfo Puccini di Milano, Animali da bar della Carrozzeria Orfeo approda a Monza, precisamente al Teatro Binario 7. Abbiamo incontrato l’autore, regista e attore Gabriele Di Luca, insieme a Massimiliano Setti e Luisa Supino fondatore della compagnia teatrale Carrozzeria Orfeo.

Gabriele, partendo proprio dalla parola “fondazione”, in che modo e attraverso quali dinamiche è nata l’idea di formare Carrozzeria Orfeo?

Gabriele

Gabriele Di Luca

La nascita di Carrozzeria Orfeo è avvenuta attraverso una commistione di cose. Il rapporto è partito prima dal lato professionale e poi si è sviluppato anche da quello personale.  Io e Massimiliano ci conoscevamo dal 2001 perché abbiamo frequentato un corso professionale per due anni insieme, poi abbiamo fatto il provino all’Accademia Nico Pepe di Udine e siamo stati presi entrambi. Durante gli anni in Accademia c’è stato un momento in cui entrambi volevamo fare gli attori scritturati. Poi a un certo punto è scattato qualcosa, una sintonia, un’empatia che si può definire artistica e creativa. E quando siamo stati messi alla prova e ci è stato chiesto di presentare delle cose nostre abbiamo iniziato a lavorare insieme e li ci siamo accorti che esisteva un terreno fertile. Insieme a Luca Stano, che dopo il primo spettacolo ha preso altre strade, abbiamo iniziato a lavorare su quelle che erano le nostre necessità.

In teatro le parole urgenza e necessità sono sempre molto svilite e sopravvalutate, ogni cosa sembra che sia necessaria o urgente. Lì però in qualche modo lo era davvero, non tanto artisticamente, quanto praticamente. All’epoca non avevamo niente, i genitori di Massimiliano ci hanno aiutato tantissimo, ci ospitavano a casa, ci compravano i biglietti per il treno. Avevamo messo su uno spettacolo, Nuvole Barocche, e ci sembrava una bella idea; parlava del rapimento di tre ragazzini, di De André, la cui fondazione ci aiutava. Ma non avevamo date, non avevamo circuiti, non avevamo nulla. In quel momento, per la prima volta, abbiamo capito veramente che questa cosa era un atto di amore incondizionato, come avere un figlio; non puoi più dormire la notte, non puoi più far vacanze, non sei più responsabile della tua vita e quando ci chiamavano a fare i provini e per proporre dei lavori, noi abbiamo sempre avuto la grande determinazione e la bravura di rinunciare a qualcosa per Carrozzeria Orfeo. Ed è stato come crescere un figlio, replica per replica, di contatto in contatto, con Massimiliano che spiava i siti delle altre compagnie per vedere in che teatri erano andate, io che facevo telefonate, appuntamenti su appuntamenti.

Ormai adesso mi sembra di essere in paradiso, ho sempre tante ansie e molti impegni da altre parti ma non accade più di passare tre/quattro mesi al telefono, cinque ore al giorno a cercare di convincere qualcuno a prendere il mio spettacolo. È diventato tutto molto diverso però la cosa bella è che non è mai diventata una cosa borghese ma è sempre rimasta una cosa pop. Questa è stata la genesi, la fondazione di Carrozzeria Orfeo. Naturalmente Luisa Supino, che ha frequentato l’Accademia con noi e ha studiato organizzazione alla Paolo Grassi, lentamente è entrata in questo organico che all’inizio si chiamava Di Luca/Setti/Stano e poi quasi subito, dopo un anno, è diventato Carrozzeria Orfeo.

Nell’espressione Carrozzeria Orfeo c’è concretezza,  c’è artigianalità. Avete scelto queste parole perché nel mondo del teatro notavate la mancanza di concretezza? Lo chiedo tenendo conto dell’immediatezza con il pubblico e del vostro modo di porvi a livello drammaturgico ma anche a livello scenico con lo spettatore…

Voglio essere molto onesto. Certe cose artisticamente arrivano come premesse mentre certe cose arrivano come una necessità. Noi non abbiamo fondato la compagnia perché avevamo un’idea così precisa sul teatro o perché in qualche modo lo volevamo rivoluzionare, quindi non passeremo alla storia come quelli che hanno portato una rivoluzione nel mondo del teatro contemporaneo. Noi avevamo veramente bisogno di farcela: era vincere o perdere. E abbiamo sperimentato. Sperimentando, sbagliando e facendo ci siamo accorti che quello che proponevamo al pubblico interessava. C’era un respiro pop, immediato, concreto, molto reale, molto vero, molto spontaneo con loro. Le persone venivano a teatro e ci dicevano sempre che per quanto si emozionavano, per quanto piangevano, per quanto si schifavano di certe cose o per quanto ridevano,  nonostante le parolacce, sembrava di partecipare più a una festa che a uno spettacolo. Venire a vederci era come un atto di restituzione d’amore e di gioia. Perché ridevi tanto, piangevi, c’era una storia contemporanea,  e noi abbiamo saputo intuire che quello era il nostro punto forte. Questo nuovo patto-pop tra artisti e pubblico, attraverso il quale si cerca di portare a teatro storie che possano raccontare il presente, ha funzionato. E proprio per questo siamo sempre stati Carrozzeria Orfeo: fin dagli inizi abbiamo sempre cercato di essere noi in prima persona con le musiche, con le luci, con i testi. Di metterci noi veramente dentro il teatro con tutto quello che avevamo in modo molto artigianale.

Hai usato molte volte la parola “pop” e lo scorso anno ho letto su un noto quotidiano nazionale un articolo che definiva il vostro un teatro pop. Mi è sembrato che questa definizione svilisse in qualche modo ciò che voi proponete sul palcoscenico…

Il problema è che bisogna intendersi sulle parole. Se poi l’intento è più o meno dispregiativo a noi riguarda meno, non facciamo parte del sistema giornalistico e critico perché non ci interessano quelle dinamiche. A noi interessa il pubblico, che è l’unico nostro interlocutore. Il teatro è sempre stato pop e non può che essere sempre pop, come il cinema è nato per essere pop. Pop è popolare, che è differente da commerciale. Un’opera commerciale è qualcosa che viene studiata appositamente a tavolino per raggiungere un target più ampio possibile e quando lo concepisci non pensi a un’operazione artistica, ma a un’operazione commerciale. Il teatro pop, quindi popolare, è un teatro che vuol stabilire un contatto con quello che è l’interlocutore del teatro per definizione ovvero il pubblico. E quindi il nostro non è né un teatro di nicchia né un teatro commerciale, è un teatro popolare perché quando vieni ad assistere a un nostro spettacolo ci sono degli elementi su cui devi ragionare ma ci sono anche delle cose che capisci,  perché non ti stiamo parlando un’altra lingua. Non riesco più a concepire come sia possibile che un film di Kubrick, o grandi film come Magnolia, li possa vedere chiunque, che sia intellettuale o contadino, mentre teatro tutto debba essere complicato o noioso. Non ha alcun senso. Rain Man lo possono seguire tutti, perché è pop. Perché questo non può accadere anche a teatro?

Qual è stato il vostro percorso evolutivo,  nella scelta dei testi, nel rapporto con il pubblico? Una chiave di lettura che magari è cambiata o un filo conduttore che parte da quando avete iniziato con Nuvole Barocche per arrivare ad Animali da Bar?

animali da barIl filo conduttore può essere rintracciato negli assi tematici. Il nostro è sempre stato un teatro del presente, che ha parlato del presente nel presente, che è un po’ quello che tutti i drammaturghi hanno fatto. Da Nuvole Barocche (dove si racconta la storia di un rapimento nel ’79) a Sul Confine (dove abbiamo parlato della tragedia dell’uranio impoverito), da Robe dell’altro mondo (dove abbiamo parlato delle paure metropolitane) a Idoli con i vizi capitali, fino a Thanks for Vaselina con il dramma familiare e Animali da bar con il dramma sociale. Abbiamo sempre lavorato su questo. Nel tempo siamo stati molto influenzati e il nostro percorso è certamente cambiato, perché abbiamo iniziato con un teatro che era veramente una comunione tra linguaggio fisico e verbale, c’era molto più spazio per il corpo e negli ultimi spettacoli questo è stato sintetizzato in alcuni momenti, come nel momento delle tazzine in Thanks for Vaselina e il momento del rewind in Animali da bar. Abbiamo dato più importanza al testo. In tutto questo c’è stata moltissima contaminazione, ma in qualche modo tutta la critica riconosce nei nostri lavori molti riferimenti cinematografici. Io come autore sono un divoratore e un esperto di serial d’oltreoceano, è logico che tutte queste cose abbiano molto contaminato. Guardare continuamente serie come Shameless o simili porta inevitabilmente a cercare di scrivere qualcosa come Thanks for Vaselina. L’obiettivo era portare in Italia qualcosa che a mio avviso non c’era, ovvero la commedia nera, la commedia sporca. E il film su Thanks for Vaselina sarà un grande tentativo di riempire questo tipo di vuoto. Il problema è che noi abbiamo i due estremi, il dramma e la commedia, e anche in quei tentativi che si vedono ogni tanto ci sono sempre le solite dinamiche. La nostra intenzione è questa: riempire quel vuoto con la commedia nera. Si può far ridere e piangere parlando di temi universali, parlando dell’Italia ma allo stesso tempo avendo un respiro che non è solamente italiano. E lo si può fare anche in modo differente da come lo fa Sorrentino, che tutto questo lo fa per immagini.

Riflettendo sul passaggio al cinema e/o alla tv, qual è l’emozione che provi, positiva o negativa, pensando al rapporto con un mezzo che non hai finora trattato direttamente?

La parola giusta è espansione. Per come sono io, e per come è fatto Massimiliano, anche quando giochiamo a ping pong è una questione di vita o di morte. Per noi sarà una grande possibilità. Noi non lasceremo, credo mai, il teatro perché è la nostra casa, perché è quello che ci ha portato dove siamo. Però il teatro ha dei grossi limiti oggettivi. Io non posso mai scrivere per più di cinque personaggi e adesso sto scrivendo un serial nel quale ce ne sono venticinque. E questo per me è una liberazione perché il teatro comunque ha delle convenzioni e se tu scrivi un testo con dodici attori non li potrai mai pagare per una tournée. Utilizzare quel mezzo certamente genera un po’ di paura e di panico perché devi gestire una cosa che non hai mai gestito, però rimane una parte secondaria. La parte primaria e più positiva è la voglia del “proviamo a vedere con il nostro linguaggio cosa ne esce”.

Nell’ultima nostra chiacchierata dicevi che avevi voglia di lanciarti più sulla parte autoriale tralasciando quella attoriale, perché portare avanti entrambi gli aspetti non è sempre facile…

Molto a malincuore in realtà. Anche se sono pigro di natura, quindi la replica non ho quasi mai voglia di farla, quando sono lì poi mi diverto e mi piace. Però quando arrivi a un certo punto, quando hai una compagnia, devi fare un film anche con dei produttori importanti o ti chiamano per scrivere delle serie o altre cose, inizi a pensare che hai una parte di responsabilità nel disegno. E devi anche riconoscere che, se come attore ci sono tanti interpreti bravi come te o sicuramente più bravi, come autore in questo momento pensi di poter fare la differenza, con un po’ di presunzione, perché le tue cose nel bene e nel male sono molto particolari. Noi siamo fortunati perché nella nostra squadra di Carrozzeria Orfeo abbiamo degli attori molto validi, che possono fare bene ma non potrebbero scrivere quello che scrivo io, perché sono le mie cose e considerati tutti gli impegni è stata una decisione strategica in questa direzione per il bene del disegno totale. Se mi chiedi se mi dispiacerà far solo la regia nella produzione ti rispondo di sì. Dall’altra parte sarà anche una liberazione perché quando arrivano quei giorni in cui devo andare a fare 50/60 repliche in tournée e non posso scrivere, rischiando di non rispettare una scadenza, per me diventa un problema.

Osservando Animali da bar ho trovato la tua poetica e il tuo sguardo sul mondo ancor più cupo e pessimista rispetto a Thanks for Vaselina. Corrisponde al vero?

animali da bar1In questo caso ci sono due discorsi diversi da fare: Animali da bar è uno spettacolo che fa sempre molto ridere ma è meno esclusivo e più esistenziale. Credo che faccia parte dei periodi della vita di un autore e sicuramente quando uno lo identifica come qualcosa di più cupo è perché in realtà è ancora di più sull’essere umano, sulla sua identità. Si è rinunciato a cinque/sei risate ma l’umore di tutto quello che ti restituisce è sicuramente qualcosa di più cupo: vuoi per la scenografia, per l’illuminazione, per il tipo di storia. L’altro ragionamento è che è sempre giusto da una parte ma errato dall’altra identificare l’autore con lo spettacolo. È giusto perché è logico, l’ha scritto lui e c’è molto di lui dentro. Ma è anche sbagliato perché a volte l’autore lavora sul personaggio che gli interessa un po’ con il guinzaglio lungo e quando scrive lo lascia andare. Scrivere è anche un equilibrio tra quello che sei tu e quelle che sono le esigenze dei tuoi personaggi e della storia.

Tra i personaggi che hai creato ce n’è qualcuno al quale sei più affezionato?

Voglio bene a tutti i miei personaggi, anche Milo Cerruti di Animali da bar, un personaggio davvero buffo. Il nostro è veramente un teatro che può avere tanti limiti ma è innamorato dei personaggi che racconta. I nostri personaggi fanno ridere perché noi li amiamo tutti e li salviamo tutti alla fine. Anche nelle loro fesserie e nelle loro schifezze. In Animali da Bar mi piace molto sia Mirka che Swarosky, mi piacciono tutti. I personaggi che interpreta Beatrice Schiros sono sempre un valore aggiunto perché lei è una fuoriclasse, oggettivamente la più brava di tutti noi, per talento o per esperienza questo lo dirà chi lo deve dire però come lei riesce a dare spessore ai personaggi che io scrivo è una cosa unica e forse i miei personaggi preferiti sono i suoi.

Vedi Carrozzeria Orfeo come una famiglia oppure vi sentite sempre molto aperti ad accogliere altri attori?

Diciamo che la vera e propria famiglia siamo io, Massimiliano e Luisa. Poi ci sono dei veri e propri figli aggiunti che ormai fanno parte della famiglia e che sono Beatrice Schiros e Alessandro Tedeschi. Dopodiché ci sono altri attori con i quali abbiamo un rapporto personale bellissimo e che di volta in volta inseriamo negli spettacoli. Alle volte è più facile perché già è l’attore che è in sintonia con il tuo modo e a volte è più difficile perché si tratta di un attore che ha esperienza ed è bravissimo ma che fatica a entrare nel tuo linguaggio. Anche in Animali da bar, con il poco tempo a disposizione, abbiamo fatto un ottimo lavoro. Devo dire che da questo punto di vista ho trovato sempre molta disponibilità. A fine anno daremo il via a una nuova produzione teatrale mentre per il cinema, al netto delle tempistiche spesso dilatate, ci saranno delle novità a breve.

La motivazione del Premio Siae alla Creatività 2013,  che ti è stato consegnato a Spoleto da Franca Valeri, recita: «Un’incisiva espressione di moderna drammaturgia che fa uso di un linguaggio acre, disadorno, a volte osceno, e che non teme lo scandalo e l’irriducibilità del tragico». Ti ritrovi in queste parole?

Sono parole molto belle ma rimangono parole scritte a tavolino in cinque, sei ore da chi scrive articoli. Per quanto mi riguarda la più bella definizione che mi è stata data, soprattutto perché mi ci ritrovo, è quella del “cinico romantico”.  Penso di possedere entrambe le cose e questo mi procura anche dei problemi, perché convivono questi due aspetti di me. In fondo, però, questo è il genere del mio teatro. Il dramma si differenzia dalla tragedia perché ha a che fare con le situazioni mentre la tragedia ha a che fare con l’individuo, con l’essere umano, con la sua caduta, con il suo destino. Il tragicomico, come è il nostro genere, si definisce come qualcosa che fa ridere ma s’innesta su un impianto tragico. Allora si può dire che io sia un uomo tragico che ha un modo di vivere la vita totalmente contrario.

Davide Sica

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