Intervista a Moni Ovadia, cantore della Yiddishkeit

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LECCO – Lo scorso 22 aprile è salito sul palco del Teatro della Società con il suo storico spettacolo Cabaret Yiddish (qui la recensione), portando in città la tradizione ebraico-orientale fatta di musica ketzmer, canti in yiddish e umorismo. Si tratta di Moni Ovadia, che in questa lunga intervista ci parla di Yiddishkeit e cultura ebraico-orientale, ma anche di attualità, dalla politica di Israele alle stragi del Mediterraneo.

“Cabaret Yiddish” è uno spettacolo che racconta di un’Europa che non esiste più. Un mondo, quello ebraico-orientale, oggi scomparso e che possiamo rivivere solamente attraverso romanzi o spettacoli teatrali…

È uno spettacolo che ha come oggetto una cultura e una civiltà dell’esilio e nulla di ciò che raccontiamo si sarebbe potuto produrre in una dimensione nazionale. Quella della Yiddishkeit era, infatti, una civiltà dell’esilio, che viveva a cavallo dei confini, oltre i confini, mai all’interno. Una civiltà che si esprimeva in una lingua e in una cultura transnazionali, senza aspirare a una patria: quell’Israele messianica non era, infatti, il sogno di una nazione e anche se il sionismo un po’ attecchisce in quel mondo, quel mondo non vi aspira. Quando Theodor Hertzl ha lanciato il progetto, dei 3 milioni che decisero di emigrare da quelle terre di esilio, fuggendo dalle persecuzioni, solo 40 mila hanno scelto come destinazione Israele, mentre la gran parte ha optato per Argentina o Stati Uniti. Gli ebrei dell’est europeo stavano bene dove erano: se non li avessero perseguitati e sterminati, avrebbero continuato a vivere sparsi per l’Europa centro-orientale.

ovadia1All’Europa manca, oggi, questa cultura?

Io credo proprio di sì. Siamo orfani. In Europa questa cultura è attualmente rappresentata soltanto dai rom, con le dovute differenze dettate dalle specificità culturali. Anche nel caso di quella rom si tratta, infatti, di una cultura dell’esilio. Yiddishkeit significa, quindi, che l’uomo non aveva bisogno di confini, pur vivendo in un determinato paese ed essendone un leale cittadino. Naturalmente tra gli ebrei ci saranno stati anche nazionalisti francesi o tedeschi, però quella cultura, che ha vissuto nei villaggi e nei quartieri ebraici delle grandi città del centro e dell’est Europa come Mosca, Odessa o Varsavia, trovava la sua identità nell’instabilità e nella fragilità.

E la lingua yiddish è il simbolo perfetto di questa cultura…

Sì, si tratta di una lingua europea e di esilio, perché accoglie in sé idiomi diversi: di ceppo germanico, ha poi avuto uno sviluppo diverso dal tedesco. Lo yiddish trae origine, infatti, dalle parlate germaniche delle comunità renane, dei cantoni svizzeri o della baviera. Cacciati dalle terre germaniche perché accusati di essere untori durante la peste nera del Trecento, gli ebrei si muovono quindi verso la Polonia, pontando con sé quella lingua. Un idioma che si evolve all’interno delle comunità e con logiche differenti da quelle dalla terra tedesca, divenendo un germanico diverso, in grado di accogliere lingue slave, l’aramaico e l’ebraico per motivi rituali, e poi man mano termini russi, rumeni e, a seconda della terra oltreoceano raggiunta, inglesi, spagnoli o portoghesi. Ecco perché è una lingua di esilio, anarchica, che accoglie. Più che una lingua verrebbe da dire che sia una condizione dello spirito, per questo molto difficile da tradurre.

Esiste una grammatica yiddish?

C’è, ma è successiva allo sterminio. Kafka diceva che l’yiddish non ha grammatica perché il popolo non lo cede ai grammatici. È una lingua di popolo, in continua invenzione, germinazione e ha dei caratteri organolettici di humor, di struggimento e di profondità. È molto difficile da descrivere, proprio perché è libera, folle.

E intrisa di umorismo…

Sicuramente, lo yiddish si esprime umoristicamente. L’umorismo germina anche nella struttura della lingua, che è sempre volta nelle forme interrogative. Invece che dire «Io sono il figlio di Rebecca» si dirà «Non sono il figlio di Rebecca?», perché non si sa mai.

La prima volta che ho sono venuto a contatto con la Yiddishkeit è stato a Milano, dove un giorno in sinagoga ho incontrato per caso un amico ebreo ungherese un po’ rompiscatole, che con fare insistente mi ha più volte ripetuto: «questo non è il posto per te. Lo so io qual è». Io, stremato da tanta insistenza, ho allora risposto: «ok, portami dove vuoi, basta che non rompi più». E allora mi ha condotto a pochi metri da lì, nello stesso stabile del Teatro Carcano, in un appartamento. Appena aperta la porta ho trovato all’interno circa 200 vecchi ebrei che parlavano in yiddish: ridevano, si prendevano in giro, litigavano, si sberleffavano, molti in un italiano parlato con accento yiddish. E lì ho rubato tutto quello che potevo rubare e l’ho inserito in uno spettacolo. Quando i vecchi si sono rivisti nelle imitazioni, alcuni li hanno portati fuori da quanto ridevano, mentre altri, settimane dopo, li ho rivisti tutti seri e con le bocche cucite. Perché questa ostilità? La risposta di uno di loro è stata: «Ovadia, lei viene qui, ruba e non dà niente in percentuale»…

cabaret yiddishAltro elemento essenziale nei suoi spettacoli è la musica. Ce ne parla?

La musica kletzmer ha due caratteristiche: è una soul music, perché è la musica di un popolo, della sua anima; ed è una world music, perché pur avendo un’anima specifica non è solipsista, bensì composta da tante esperienze sonore e timbriche provenienti da tutto il grande bacino in cui vivevano le comunità ebraiche orientali. Melodie tipiche di quelle zone si mischiano, quindi, al canto sinagogale e al canto paraliturgico ebraico. Ecco perché questa musica tocca tutte le anime erratiche, tanto che oggi esistono gruppi kletzmer che non hanno al loro interno neppure un membro di origini ebraiche.

Per legarci all’attualità, cosa pensa delle parole di Netanyahu, che dopo i fatti di Parigi ha invitato gli ebrei francesi ed europei ad andare tutti in Israele?

Netanyahu è un politico ultra reazionario e che pensa solo alla propria carriera: non gli importa né degli ebrei in Israele, né tantomeno di quelli in Europa. Il punto è che se lui riesce a provocare un movimento degli ebrei europei, allora potrà avere la giustificazione per continuare a depredare i palestinesi. Questo è l’unico scopo di Benjamin Netanyahu. Lui ha esattamente le stesse motivazioni di tutti i politici reazionari, ultra conservatori o fascisti. Quando si mette lo zucchetto non gliene frega niente di niente dell’etica ebraica, della spiritualità. Vuole solo negare i diritti dei palestinesi.

Ritiene possa avere successo questo suo appello agli ebrei europei?

Non è un problema. Fra cento anni Netanyahu non sarà neanche più pasto per vermi. I nipoti di quelli che oggi possono essere sensibili a questo richiamo, che scelgono di andare in Israele, se ne torneranno tutti indietro, perché il nazionalismo non appartiene alla dimensione ebraica. È comprensibile, dopo il terribile shock della Shoah, che qualcuno voglia vivere in Israele, ma è una patologia: secondo me l’ebreo ha costruito un’identità di popolo intorno a un’etica, a una legge, a una narrazione, non intorno a dei confini. La storia della terra promessa esiste, ma quella terra viene promessa sub condicione. È vero infatti che Dio indica ad Abramo la terra promessa, ma è anche vero che più avanti gli ricorda che questa non appartiene agli uomini, ma a lui. La terra è del Signore: non è possibile che si instauri, lì, un fottuto nazionalismo, che è idolatria della terra. Qualcosa che è in netto contrasto con la sintesi dell’ebraismo, che è radicale anti-idolatria.

IMG_7655Il contrario di quello che accade oggi…

Esatto. Il messaggio era sostanzialmente “andate in quella terra, fatela santa, dimostrate che la terra può essere abitata da stranieri fra gli stranieri”. Questa è la grande sfida ebraica, l’idea che si possa abitare una terra senza diventare nazionalisti. Perché se l’obiettivo fosse stato quello di fondare un nazionalismo di questo tipo, allora avremmo dovuto deciderlo 4 mila anni fa, evitando di farci massacrare.

Un tema, questo, che si collega anche al dramma dei migranti nel Mediterraneo. Quali le soluzioni?

Sa come si fa a fermare questo fenomeno? Non lo si ferma. L’unica soluzione è quella di aprire le porte delle ambasciate europee e dei paesi prosperi, dicendo alle persone sul punto di emigrare: «non fatevi portare da quei delinquenti. Venite qui, fate domanda» e, a seconda delle urgenze e con i dovuti controlli, si organizza il loro viaggio nella legalità. Perché con i soldi che spendono per attraversare il Mediterraneo sui barconi, potrebbero venire con tutta la famiglia in prima classe, oppure con un volo low cost e in seguito iniziare la loro nuova vita con qualche soldo da parte, proprio come fece mio padre quando dalla Bulgaria venne in Italia. Altrimenti come fermare una persona che rischia di essere sgozzata? Con la guerra?

Daniele Frisco

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L'autore di questo articolo

Daniele Frisco

È il flâneur numero uno, ideatore e cofondatore del giornale. Seduto ai tavolini di un qualche bar parigino, lo immaginiamo immerso nei suoi amati libri, che colleziona senza sosta e che non sa più dove mettere. Appassionato di Storia e, in particolare, di Storia culturale, è un inarrestabile studente (!): tutto è per lui materia da conoscere e approfondire. Laurea? Quale se non Storia del mondo contemporaneo?! Tesi? Un malloppo sul multiculturalismo di Sarajevo nella letteratura, che gli è valso la lode. Travolto da un vortice di lavori – giornalista, insegnante di Storia, consulente storico e istruttore del Basket Lecco – tra una corsa di qua e una di là ama perdersi nel folk-rock americano, nei film di Martin Scorsese e di Woody Allen, nella letteratura mitteleuropea e, da perfetto flâneur, nelle strade della cara e vecchia Europa. Per contattarlo: daniele.frisco@ilflaneur.com