Metti un Ulisse senza l’Odissea ed è subito dramma. La convincente prova di Carlo Decio a Lecco

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di Giuseppe Leone

LECCO – È stato un Odisseo al netto del mito, di Omero e della tradizione, quello messo in scena dall’attore lecchese Carlo Decio, nell’ambito della rassegna Altri percorsi e con la regia di Mario Gonzalez (luci di Stefano Capra e costumi di Cristina Mariani), la sera di giovedì 16 luglio nella replica delle 22, nel neoclassico cortile di Palazzo Bovara, davanti a un pubblico interessato e attento.

Senza dubbio, una performance fuor di retorica, che ha messo in mostra, non l’eroe di multiforme ingegno o il prode che perì nel folle volo, ma semplicemente l’uomo, che piange, ride, gioisce, ha paura, spera, si dispera; un reduce di guerra, insomma, che agogna la serenità nella sua casa a Itaca, mentre vive lontano tra efferatezze inaudite e indicibili sofferenze.

Il tutto in una messinscena che non perde mai di vista l’attualità, che anzi la ingloba, fino a farne uno spettacolo che s’incendia subito di rimandi fra le peregrinazioni di Odisseo alle prese con mostri e altre avversità che gli impediscono di ritornare in patria e le tribolazioni dell’umanità al tempo del coronavirus.

A partire dall’analogia tra sipario e mascherina, che il giovane attore evidenzia accennando al teatro nell’antica Grecia, che non disponeva ancora del sipario e della separazione tra spettatore e attore, quando era possibile che si guardassero negli occhi, che interagissero, insomma; com’era, prima che il teatro di corte  ricacciasse il pubblico nell’ombra; e com’è, ora che la pandemia ha imposto di stare separati dentro i luoghi chiusi.

E non solo, che va avanti, tra il sogno di Odisseo di riabbracciare i propri cari assediati in casa da pericolosi pretendenti e il miraggio dell’umanità di ritornare libera e felice all’indomani della fine del contagio; nonché, la discesa agli inferi – che punge a guaio, avrebbe detto Dante – più che eloquente evocazione dei lunghi cortei di camion con i morti di Bergamo che avanzano verso il cimitero.

Uno spettacolo nello spettacolo, allora: da una parte, il racconto di Odisseo, dall’altra, la rappresentazione di un altro dramma che, pur latente, l’attore riesce a portar fuori,  grazie a una scrittura di scena (preparata assieme a Gonzalez) che gli permette, in una settantina di intensissimi minuti, di attingere a una parola fresca e immediata per una voce dalle sonorità  morbide e gravi come la sua, così di fronte all’onomatopea, così nei crescendo del linguaggio articolato;  e a un regista, che ha proposto un allestimento  asciutto, essenziale e scarno, in una scena vuota, piena solo delle  parole e della fisicità del bravo attore.

Alla fine il caloroso applauso di un pubblico  vicino e “distante” a un tempo, ma sempre appeso alle labbra di un attore che ha raccontato, si diceva, un Ulisse senza l’Odissea e, per di più, in versione popolare, recuperando, non solo l’improvvisazione tipica della commedia dell’arte, ma anche la gestualità dei mimi, che ne hanno accelerato l’azione  e caratterizzato questo dramma costantemente nel segno di un umanesimo totale, al riparo da equivoci o da compromessi ideologici, ora, presentato, come modello per la ripartenza,  a un’umanità smarrita e confusa, ancora nel mezzo di una pandemia che non vuol passare. 

                                                                                                                                                                           Giuseppe Leone

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