“Recito e osservo il mondo, senza pregiudizi o barriere”.
Intervista ad Arianna Scommegna, a Missaglia con “Magnificat”

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Attrice milanese, vincitrice del Premio Ubu 2014 come miglior attrice/performer per Il ritorno a casa diretto da Peter Stein e ospite dell’edizione 2017 del festival L’ultima luna d’estate con Magnificat (qui la presentazione dello spettacolo in programma per giovedì 7 settembre alle 21, al Monastero Misericordia Missaglia). Abbiamo intervistato Arianna Scommegna, anima generosa e innamorata del teatro.  

– Vorrei iniziare con una domanda diffusissima, che spesso ci rivolgiamo con leggerezza, ma a cui dare una risposta, secondo me, può essere complesso: tu cosa fai nella vita?

[Non la vedo, ma la voce sorride] È una bella domanda. Di questi tempi, noi che lavoriamo dentro il teatro ci stiamo accorgendo che il suo ruolo sta diventando sempre più quello di operatore culturale. Chi lavora in teatro, che sia attore, scrittore, regista, tecnico, è un operatore culturale, uno che opera dentro la cultura e per la cultura: scegliendo gli spettacoli da fare, dove e con chi lavorare, si lascia un’impronta, si dà una direzione. Il teatro è uno dei pochi posti in cui, almeno per la durata dello spettacolo, si stacca dal resto, ci si incontra e ci si ritrova. I luoghi di ritrovo oggi hanno per lo più una natura commerciale – senza nulla togliere all’attività commerciale, necessaria e positiva – ma il puro e disinteressato incontro per la mente, per lo spirito, oggi è fattibile in pochissimi posti, tra cui il teatro.

In questi 20 anni di attività nella compagnia ATIR, in cui mi sono formata e in cui continuo a crescere, ho capito che la mia identità è legata a questo aspetto culturale. Quindi, alla domanda cosa fai nella vita, rispondo che sono un’attrice che cerca di crescere nella sua professione, di ampliare il suo spettro di conoscenze e le sue potenzialità, ma sempre al servizio della cultura. Tutte le più belle esperienze che ho vissuto e che ricordo sono legate allo scambio culturale, all’incontro e all’arricchimento spirituale.  Poi, è chiaro ed è vero, il bisogno materiale esiste, ma se il lavoro si riduce a lavoro meccanico e materiale inaridisce. Chi fa teatro è pazzo e innamorato e sa che il suo lavoro serve anche a preservare i luoghi fisici, i teatri stessi. Credo che la passione, l’amore disinteressato, il tempo, l’incontro siano doni di chi desidera fare teatro e farlo crescere. Il teatro è lento, richiede tempo da dedicare alle cose, alla scrittura, alle persone. Sono convinta che il teatro sia uno stile di vita: contamina tutto quello che facciamo, quello che siamo, il nostro approccio alla realtà. Per me, è linfa vitale.

– Nella tua risposta hai usato il verbo essere piuttosto che il verbo fare: «sono un’attrice». Cosa vuol dire, per te, essere attrice?

ScommegnaIo mi sento attrice, è quello che so fare ed è quello che mi fa stare bene. Lo dico con molta serenità: per me è stata una grande fortuna avere la possibilità di lavorare in teatro. A me fa bene, mi fa sentire una persona migliore. Trovo che recitare sia un modo per farsi sempre domande, per non fermarsi, per non spegnersi e per stare con gli altri, che è la cosa più difficile del mondo. La convivenza è difficilissima: ci vuole molto tempo, molta pazienza, molta perseveranza a costruire relazioni; un secondo a distruggerle. Il teatro è relazione, per sua natura si fonda su un’esperienza di condivisione. È anche un luogo di accoglienza delle diversità: non c’è competizione, né omologazione; anzi, le differenze sono esaltate. La natura del teatro è sociale, comunitaria. Ha bisogno dello scambio. È incontro. Il mondo è molto inquinato, sia a livello ecologico che umanitario e persino una cosa semplice come l’incontro, oggi, diventa difficile, quasi rappresenta un ostacolo. Credo che se lo spirito di condivisione e di relazione proprio del teatro venisse assunto da tutti e in tutti i posti di lavoro, poco alla volta avremmo un mondo migliore.

– Da dove nasce la tua passione per il teatro?  C’è un momento preciso nel tempo in cui hai sentito arrivare il desiderio o il bisogno di recitare?

Da che mi ricordi, recitare è sempre stato il mio più grande desiderio. Fin da piccolissima, a chi me lo domandava, rispondevo che da grande volevo fare l’attrice. I miei genitori si chiedevano da dove mi arrivasse questa idea, e me lo sono chiesta anch’io molte volte, diventata adulta (i bambini non si fanno queste domande, per loro è naturale desiderare). La verità è che non ho mai trovato una risposta, penso di averlo sempre sentito dentro. Recitare, per me, è una forma di espressione, un luogo in cui posso essere altro, un’intercapedine della realtà dove consolarmi se qualcosa non va. Per me è terapeutico, mi fa stare bene. Io e il mio desiderio siamo cresciuti insieme e mi sento fortunata per averlo realizzato.

– Com’è confrontarsi con le parole e coi pensieri altrui – che, immagino, non sempre saranno in linea con i tuoi –  e calarsi ogni volta nei panni di un altro?

magnificat1Consolatorio. E difficile perché ci vuole molta disposizione: essere accanto al personaggio e, allo stesso tempo, viverlo come se fossi tu. Calarsi nei pensieri di un altro fuori da te richiede una adesione totale: spirito, mente e corpo; e questo non è sempre facile. Nel tempo, come ogni cosa, affini la tua abilità e riesci a trovare delle tecniche che ti avvicinino sempre più e sempre meglio ai personaggi. È un lavoro quasi artigianale, come se ci fosse una grossa pietra che devi scavare e levigare per raggiungere il cuore della materia, questo piccolo essere che deve essere toccato e liberato. La pietra non diventerà mai perfettamente levigata, ma, col tempo, il lavoro di scalpello si affina. È necessario scalfire la superficie, abbandonare ogni giudizio e pregiudizio e prepararsi ad accogliere qualcosa di diverso da sé. Quello che ho chiamato “lavoro di scalpello” è principalmente tecnico, ma non solo: è anche psicologico, mentale ed emotivo. Ogni giorno, lavori per ampliare il tuo spettro umano. Come un antropologo: attraverso l’osservazione attenta, la condivisione, la vita stessa, conosci il genere umano. Per interpretare una parte, ti alleni fisicamente, eserciti la voce, la memoria, prepari il tuo corpo, ma anche il tuo spirito. Come fai a raccontare un essere umano? Se sei un attore, l’unico strumento che hai a disposizione sei tu. Se riesci a incanalare la tua energia, sei efficace. Il tuo strumento ti accompagna sempre e può essere continuamente stimolato, sollecitato, migliorato. Ci sono due parole chiave che credo caratterizzino noi attori: empatia e osmosi. L’osmosi è la capacità di farsi miscelare dalle cose e l’empatia ti permette di riuscire ad arrivare all’osmosi, partecipando delle emozioni altrui, provando compassione, nella sua valenza etimologica del con-patire. Osserviamo il mondo senza pregiudizi o barriere. È un esercizio che tutti possiamo fare: il nostro strumento siamo solo noi.

– Sempre nell’ambito della recitazione, ti sei misurata anche con il cinema: hai lavorato in “Scialla! (Stai sereno)” di Francesco Bruni (2011), in “La variabile umana” (2013), nel più recente “Fai bei sogni” di Valerio Mastrandrea (2016). Venerdì 8 settembre esce “Il colore nascosto delle cose”, diretto da Silvio Soldini, con Valeria Golino e Adriano Giannini, ultimo film in cui hai recitato. Qual è la differenza sostanziale tra recitare in teatro e recitare al cinema? C’è uno stile che preferisci? 

La differenza sostanziale è il rapporto tra tempo e intensità: il teatro ti permette di esprimere l’energia e l’intensità attraverso il tempo che hai a disposizione, che è quello dello spettacolo; il cinema ti chiede di ridurre tutto ciò che fai a teatro in maniera esponenziale, condensando in quella riduzione tutta la potenza e l’intensità. Il cinema ti ruba l’anima, ti entra dentro e ti prende al di là di te, il teatro ha bisogno che tu dia. È difficile recitare nel cinema, serve molta tecnica: devi essere concentrato e il più possibile naturale; devi mostrarti inconsapevole della macchina da presa, esserne consapevole, ma di nascosto, ed evitare di farti distrarre da chi ti sistema il trucco o ti aggiusta i capelli tra una battuta e l’altra. Nel teatro, invece, devi essere consapevole di ogni cosa, presente sulla scena; devi instaurare una relazione e mantenerla per tutto il corso dello spettacolo. Nel cinema sei una funzione; anche nel teatro sei una funzione, ma anche hai una funzione. Per stare su un set cinematografico devi avere un buon grado di inconsapevolezza o essere in grado di dissimularla bene. Anche se non sai stare su un palco, puoi fare cinema: ci sono attori di cinema straordinari che non sono passati dal teatro. Però, se non sai stare sul palco, se non sai tenere il palco, non puoi fare teatro.

– Secondo te, tra i due tipi di recitazione uno è migliore dell’altro? Sono paragonabili o sono due mondi diversi?

Cinema e teatro sono assolutamente due mondi diversi dentro l’universo della recitazione; un po’ come chirurgia e pediatria in medicina. Le esperienze di cinema che ho fatto sono state tutte molto belle e arricchenti. Certo, il teatro è la mia vita, è la mia casa, è la mia grande passione. Io amo stare con le persone, incontrare le persone alla fine di ogni spettacolo è una cosa a cui non so rinunciare. Nel cinema non succede, anche se io, forse perché amo “attaccare bottone”, ho avuto la fortuna di instaurare sempre belle relazioni sui set dei film in cui ho lavorato.

– Giovedì 7 settembre sei in scena a Missaglia nella splendida location del Monastero della Misericordia con “Magnificat”, ospite del festival teatrale “L’ultima luna d’estate”. Come è nato questo spettacolo, basato sull’omonimo testo di Alda Merini?

MagnificatL’anno scorso, Gabriele Allevi, direttore artistico, con Luca Doninelli, di “deSidera”, mi ha chiesto di partecipare a un progetto artistico che si sarebbe tenuto a Lodi, al Tempio dell’Incoronata. Tra arte, musica e teatro, lo spettacolo proponeva delle letture di autori del Novecento inseriti in un contesto spirituale. Io avrei dovuto leggere alcuni brani tratti da Magnificat, una delle ultime raccolte di poesie di Alda Merini, autrice da me molto amata. Prestare la mia voce a questa poetessa e alle sue parole era per me un onore di cui non mi sentivo degna, ma, nonostante queste remore iniziali, accettai. Dopo la lettura, di una forza eccezionale, io e Gabriele ci guardammo e percepimmo il nostro desiderio comune: farne uno spettacolo teatrale.

Abbiamo raccolto le poesie frammentate e composto un testo teatrale unitario, senza cambiare una virgola del testo originale. Parte dall’annunciazione di Maria e segue tutta la sua vita da lì fino alla passione, morte e risurrezione di suo figlio. Potrebbe sembrare un testo religioso; in realtà, il punto di vista che gli abbiamo conferito è molto umano, quotidiano. Per noi, Magnificat è tutte le volte che l’uomo ha un’annunciazione, ovvero una chiamata all’atto creativo dall’atto creativo stesso. L’atto del creare non è prerogativa unica degli artisti, come l’atto del partorire non è proprio solo delle donne. Tutti gli uomini sono chiamati da un atto creativo: l’insegnante, il dottore, il contadino, l’operaio, come lo scultore, il poeta, il musicista, il pittore. Certo, non tutti gli uomini sono artisti o poeti: questi sono eletti, portavoce dell’uomo, che parlano dell’umanità e all’umanità. Il loro punto di vista è unico e straordinario, proprio come quello di Alda Merini.  Ma ogni atto umano è un atto generativo e di dono e tutti abbiamo la capacità di partorire qualcosa che si stacca da noi e va nel mondo come figlio. Questo spettacolo, quindi, vuole parlare a tutti, in un modo molto diretto e naturale. Shakespeare dice che il teatro è uno specchio della natura, in cui l’uomo ritrova il mondo e se stesso. Alda Merini, anche con questa raccolta di poesie, si dona al mondo. E noi la doniamo a voi.

La poesia non ha bisogno di scenografie, infatti in questo spettacolo è scarna ed essenziale: in primo piano è la parola. Fondamentale è la presenza di Giulia Bertasi e della sua fisarmonica, che compone un testo musicale che aggiunge significato e potenza al testo recitato. Lavoro con Giulia da molto tempo e tra noi c’è stata da subito grande sintonia: anche qui, come in Mater Strangosciàs (di Giovanni Testori, regia di Gigi Dall’Aglio, produzione ATIR – 2012) è una presenza irrinunciabile.

– “Magnificat” di Alda Merini è un’opera molto intensa: trabocca di emozioni contrastanti, di parole dense. Attorno alla figura di Maria si alternano punti di vista diversi: uno esterno, che si rivolge al lettore; uno interno che si rivolge a Maria; un altro interno, che è Maria stessa. Com’è stato e com’è confrontarsi con questo testo?

All’inizio, ho avuto molta soggezione, soggezione di avvicinarmi ad Alda Merini e alle sue parole: a differenza di quelle di Shakespeare o di altri drammaturghi, queste non sono nate per essere messe in scena e il mio timore più grande era quello di profanare la loro poesia. Pensandoci, però, lo stesso Calvino afferma che un classico serva a definire te stesso, in accordo o in opposizione ad esso. Il Magnificat della Merini è un classico e rimane tale. Forte di questa consapevolezza, so che ci stiamo confrontando con esso per capire un po’ meglio noi stessi. Inoltre, il desiderio di rendere queste poesie un testo teatrale, di sentire nella mia bocca ogni parola, di impararla a memoria e recitarla, a un certo punto era diventato tale da farmi superare ogni paura.

Nello spettacolo abbiamo mantenuto i tre punti di vista, che diventano tre voci: quella di Maria che parla direttamente, quella dell’attrice che parla a Maria e la voce esterna che parla di Maria. Questi tre sguardi danno profondità alla complessità del personaggio di Maria, aiutano a indagare i suoi pensieri, i suoi turbamenti, le sue contraddizioni. Il risultato è un personaggio a tutto tondo, fragile e determinato, delicato, tormentato e umano. Vero.

– Un’ultima cosa. Il flâneur è il girovago, il vagabondo, colui che indugia a passeggio per la città, osservandosi intorno. Ci piace pensare di regalare ai nostri lettori momenti di ozio felice in quest’epoca di frenesia, momenti di cultura, lettura e svago. Ti va di fare un saluto al nostro Flâneur e ai nostri lettori?

C’è una canzone del mio papà (Nicola di Bari) che mi viene in mente, si intitola Giramondo e fa così [canticchia ridendo]:

«ma un vagabondo come me / che insegue la felicità / in fondo vuole dalla vita / solo l’amore che non ha… / giorno dopo giorno  / l’aspetterò / passo dopo passo  / io la cercherò e la troverò »

Vi auguro, vagabondi e giramondo, di trovare la felicità.

Claudia Farina

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L'autore di questo articolo

Claudia Farina

È la più piccola dei flâneurs, con una chioma ribelle e un sacco di sogni. Fin da bambina innamorata del racconto e delle parole, saltella tra una storia e l’altra, tra la pagina e la vita. Laureata in Lettere Moderne, è alla ricerca costante di nuove ispirazioni e di luoghi dove imparare. La tesi sulla narrazione nella musica di Wagner è stata un colpo di testa (e un colpo di fulmine!). Suona il clarinetto da (un po’ meno di) sempre, ama la musica, l’amicizia quella vera, la natura, lo stupore e la Bolivia, che porta nel cuore. Crede negli incontri che cambiano la vita e la rendono speciale, come quello con Il Flâneur! Pensa molto (forse, troppo). Le piace viaggiare e scoprire il mondo, fuori e dentro i libri. Nella scrittura si sente a casa ed è convinta che la cultura, passione ribelle, sia davvero in grado di cambiare il mondo.