Un dialogo intimo tra radici e futuro.
La recensione di “Accabadora” con Monica Piseddu

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LECCO – «Data a fill’e anima a Bonaria Urrai», Maria è sempre stata «la quarta» o «l’ultima» per sua madre Anna Teresa Listru, un peso, una figlia «di troppo», invisibile, inesistente, fino ai suoi sei anni, fino a Tzia Bonaria Urrai. Oggi, Maria Listru è una donna. Dopo averla incontrata nelle pagine dell’Accabadora di Michela Murgia, la regista Veronica Cruciani ha deciso di portare in scena Maria Listru per dare voce alla sua femminilità complessa, alla sua vita di figlia sospesa, al suo cambiamento mai davvero attuato. Uno spettacolo al quale il pubblico lecchese ha potuto assistere nella serata di martedì 27 febbraio 2018, appuntamento della rassegna di prosa che il Comune di Lecco sta portando sul palco del Cineteatro Palladium.

Monica Piseddu (Premio Ubu e Premio della Critica 2015 come miglior attrice) guarda verso la platea, sopra un palco spoglio che – una panchina, una sedia, uno schermo grigio – è Soreni, il piccolo paese sardo in cui Maria è nata, ed è la casa di Tzia Bonaria Urrai, la sarta del paese, di nero vestita, solitaria e sola, almeno fino all’adozione di Maria.

accabadora1Intenso e concitato, il monologo della protagonista è carico dell’affetto familiare più tenero, venato da accenni di ironia e da toni di rimprovero verso il personaggio della Tzia, presente ai suoi occhi e non a quelli degli spettatori. Tornata da Torino, Maria veste i panni di chi ha provato a cambiare vita, andandosene nel “Continente” per non dover più rendere conto a nessuno; al capezzale di Tzia Bonaria Urrai, però, la giovane donna torna chi era, torna chi è davvero: toglie le scarpe, sfila i vestiti della città e scivola nel letto, dentro i suoi incubi, accompagnati dai video sullo schermo, curati da Lorenzo Letizia, e dai suoni di Hubert Westkemper.

Al risveglio dal sonno angosciato, inizia la nuova vestizione della protagonista: i capelli neri raccolti dietro la nuca, una camicia nera abbottonata fino alla gola, infilata in una gonna pesante, nera, sotto cui scompaiono e riappaiono i piedi scalzi. Maria percorre il palco e torna a impossessarsi della terra di Sardegna, della sua verità e della verità dell’unica donna che abbia mai considerato sua madre: Bonaria Urrai, l’accabadora, colei che di notte e col viso rigato di lacrime concede la buona morte a chi la chiede.

Rivolta verso il pubblico, l’attrice non distoglie lo sguardo, fisso, mentre con voce impetuosa e commossa rievoca emozioni e ricordi che sono per Maria ancora tutti da rielaborare: «Ma tu, di chi sei figlia?», «Avrei dovuto pensarci bene, avrei dovuto pensarci bene», «Ci sono cose che si fanno, e cose che non si fanno; cose che si fanno e cose che non si fanno», domande e frasi ripetute come cantilene, come una presa di coscienza che non arriva mai.

È un dialogo, quello tra la protagonista e Bonaria Urrai agonizzante, che ha la forma del monologo o del dialogo interiore, tra una bambina e una donna, tra una figlia e una madre: «Solo la sorella, o la figlia, so fare. Non la madre. L’unica madre che conosco siete Voi», così Maria, sottovoce, alla Tzia. Un dialogo tra la vita e la morte, che prende la figura di una donna, e diventa umana ed entra nella vita.

In un crescendo di tensione emotiva, le parole della protagonista si trasformano in gesti e toccano le corde più profonde e naturali degli spettatori che, posti di fronte alla complessità delle decisioni, sospendono ogni giudizio e aderiscono al pathos e all’animo tormentato di Maria, per poi sciogliersi nell’ultimo respiro dell’accabadora.

Le scene e i costumi di Barbara Bessi, le luci di Gianni Staropoli, i suoni di Hubert Westkemper e i video di Lorenzo Letizia, la produzione della Compagnia Veronica Cruciani, Teatro Donizetti di Bergamo e CrAnPi, il testo di Carlotta Corradi, la regia di Veronica Cruciani e l’interpretazione forte di Monica Piseddu hanno portato sul palco del Palladium uno spettacolo toccante e lungamente applaudito.

Claudia Farina

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L'autore di questo articolo

Claudia Farina

È la più piccola dei flâneurs, con una chioma ribelle e un sacco di sogni. Fin da bambina innamorata del racconto e delle parole, saltella tra una storia e l’altra, tra la pagina e la vita. Laureata in Lettere Moderne, è alla ricerca costante di nuove ispirazioni e di luoghi dove imparare. La tesi sulla narrazione nella musica di Wagner è stata un colpo di testa (e un colpo di fulmine!). Suona il clarinetto da (un po’ meno di) sempre, ama la musica, l’amicizia quella vera, la natura, lo stupore e la Bolivia, che porta nel cuore. Crede negli incontri che cambiano la vita e la rendono speciale, come quello con Il Flâneur! Pensa molto (forse, troppo). Le piace viaggiare e scoprire il mondo, fuori e dentro i libri. Nella scrittura si sente a casa ed è convinta che la cultura, passione ribelle, sia davvero in grado di cambiare il mondo.