RADIO FLÂNEUR – “Gigaton” dei Pearl Jam. Il disco giusto al momento giusto: un ritorno “esplosivo” per Vedder e soci

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Makes much more sense to live in the present tense…”: così cantavano i Pearl Jam nell’ormai lontano 1996, ai tempi dello spiazzante No code; da allora son passati quasi altri venticinque anni, ma quei versi valgono ancora oggi, nei giorni in cui, dopo quasi sette anni di silenzio discografico, la band di Seattle è tornata sulle scene con il nuovo ed attesissimo Gigaton. Per Eddie Vedder e soci quello che conta è vivere attentamente il tempo presente con tutte le sue implicazioni, positive o negative che siano, con un occhio sempre rivolto al futuro che ci attende e un altro ben ancorato al glorioso passato da cui si proviene, che nel caso del gruppo affonda le radici in trent’anni di onorata nonché stratosferica carriera.

Il filo conduttore che unisce tutte le dodici tracce del disco è quello del cambiamento, inteso sia come mutamento climatico in atto – la copertina con lo scioglimento dei ghiacci parla da sola – sia come critica ai politici di turno che si sono resi responsabili di molte delle devastazioni avvenute in questi ultimi anni, ma anche come ricerca di nuove sperimentazioni a livello compositivo per tutta la band, oltre che di rinnovato impegno civile e politico in molti dei testi come non si riscontrava da parecchi anni a questa parte.

Gigaton è quindi un disco eterogeneo e ricco di diverse sfaccettature, pieno ovviamente di tanti brani rock tipici dello stile dei Pearl Jam (Who ever said, Superblood wolfmoon, Quick escape, Never destination e Take the long way), di altrettante ballad sia full band che acustiche (Seven o’clock, Alright, Buckle up o le conclusive Comes then goes, Retrograde e River cross) e – novità rispetto alle ultime produzioni in studio della band – con diversi spunti più innovativi e sperimentali (su tutti Dance of the clairvoyants, ma anche le già citate Alright e Buckle up contengono alcune soluzioni interessanti). A livello di struttura, sembra quasi che Gigaton sia organizzato perfettamente in quattro blocchi da tre canzoni ciascuno: Who ever said, Superblood wolfmoon e Dance of the clairvoyants danno i riferimenti iniziali per imbarcarsi in questo nuovo viaggio musicale tra classic rock e nuove sperimentazioni, Quick escape, Alright e Seven o’clock formano l’ossatura centrale del disco, Never destination, Take the long way e Buckle up rappresentano la triade meno efficace del lavoro, mentre le ballate acustiche Comes then goes, Retrograde e River cross vanno a chiudere magnificamente un album veramente significativo e complessivamente ben riuscito. A tutto questo va aggiunto che Gigaton è il disco più lungo della carriera dei Pearl Jam, ma soprattutto è il più politico e impegnato dai tempi ormai lontani di Riot act… E con Donald Trump alla Casa Bianca, così come era successo all’epoca di G. W. Bush, non poteva essere altrimenti: il tycoon statunitense viene citato in tre pezzi (Quick escape, Seven o’clock e indirettamente in River cross), ma nonostante i tempi bui che stiamo attraversando – Trump, Coronavirus e disastri ambientali vari – il nuovo album dei Pearl Jam è un disco pieno di speranza, sicuramente meno diretto e di facile presa rispetto ai predecessori Backspacer e Lightning bolt, ma che arriva nel momento giusto e testimonia la vitalità di una band che come poche altre riesce ancora a raccontare il mondo circostante attraverso la propria arte e le proprie canzoni.

Canzoni forse non sempre immediate, sicuramente più lunghe dei consueti standard rock e senza i classici ritornelli da cantare a squarciagola ai concerti, ma con testi mai come in questo disco densi di significato e arrangiamenti che arrivano dritti al cuore degli ascoltatori. Un disco esplosivo, che si svela compiutamente soltanto dopo ripetuti ascolti e non per niente s’intitola come l’unità di misura di massa equivalente a un miliardo di tonnellate che in climatologia viene usata per quantificare e registrare il distacco di ghiaccio ai poli, fenomeno aumentato drasticamente negli ultimi decenni per effetto dei mutamenti climatici in atto in tutto il pianeta.

@ Danny Clinch Photography

La partenza al fulmicotone, come da tradizione che si rispetti, è affidata all’accoppiata formata da Who ever said e Superblood wolfmoon: due pezzi molto tirati, che tanto devono ad artisti come The Who, Led Zeppelin e affini, da sempre riferimenti fissi per Eddie Vedder e compagni. Who ever said è il classico brano d’apertura al quale i Pearl Jam ci hanno ormai abituato da decenni, il solito rock d’impatto perfetto per aprire le danze nel quale la band, oltre a ribadire di essere tornata alla grande nonostante molti la reputassero sulla via del tramonto, si diverte ad autocitarsi con rimandi più o meno velati a pezzi come Breakerfall, Brain of J. o Gonna see my friend, senza per questo rinunciare a parlare dei tempi che stiamo vivendo: “Home is where the broken heart is, home is where every scar is… All the answers will be found in the mistakes that we have made… Whoever said it’s all been said gave up on satisfaction…  ”.

Superblood wolfmoon – scelto come secondo singolo anticipatore dell’album – fa il paio con Who ever said e prosegue su quel mood martellante ma allo stesso tempo molto radiofonico; il riff iniziale è potente, la voce di Vedder tirata al punto giusto e pure l’assolo di Mike McCready dona linfa e grinta a un brano che parla del senso di mancanza derivato dalla perdita o comunque dall’assenza di una persona: “I can hear ya, singing in the distance, I can see ya when I close my eyes, once you were somewhere and now you’re everywhere, I’m feeling selfish and I want what’s right, ask for forgiveness, I beg of myself, feeling angry, knock it off the shelf… Superblood Wolfmoon, took her away too soon…”.

Dopo due brani del genere, è la volta di Dance of the clairvoyants, singolo apripista di Gigaton che appena uscito ha spiazzato più di un fan del gruppo per la sua apparente estraneità al classico sound dei Pearl Jam. Effettivamente le atmosfere che richiama strizzano un occhio più alla new wave anni ’80 e a gruppi come i Talkin Heads o a certe produzioni di David Bowie, più che al rock muscolare a cui saremmo abituati; eppure il brano funziona e risulta senz’altro il più sperimentale del lotto, oltre che legato ai tempi che stiamo vivendo: “Expecting perfection leaves a lot to endure, when the past is the present and the future’s no more, when every tomorrow is the same as before… Numbers keep falling off the calendar’s floor, we’re stuck in our boxes, windows open no more, collecting up the forget-me-nots not recalling what they’re for, I’m in love with clairvoyants ‘cause they’re out of this world… Stand back when the spirit comes…”.

Sostenuta da una potente linea di basso e da un assolo incendiario di Mike McCready, Quick escape riparte con il suo carico di ritmo ed energia che ricorda da vicino brani come le mitiche Rearviewmirror o Corduroy; oltre a presentare uno dei pochi ritornelli di tutto l’album (che a sua volta richiama quello della già citata Breakerfall), la canzone strizza un occhio ai Led Zeppelin di Kashmir, evocati pure tra i versi insieme ai Queen e a Freddy Mercury (“Queen cranking on the blaster and Mercury did rise”). Terzo estratto dall’album, è insieme a Seven o’clock uno dei brani in cui emerge maggiormente l’impegno politico del gruppo, con critiche neanche troppo velate a Trump e racconta la volontà di intraprendere un viaggio verso mondi musicali diversi ma sempre amati, con l’intento di scappare – naturalmente on the road come l’avrebbe inteso Kerouac, non a caso citato nel testo (“And a Kerouac sense of time…”) – verso uno dei pochi posti non ancora contaminati dall’odiato presidente americano: “Crossed the border to Morocco, Kashmir then Marrakech, the lengths we had to go to then to find a place Trump hadn’t fucked up yet… Had to quick escape…”. Eddie Vedder e compagni non hanno mai nascosto le loro simpatie democratiche, da Riot act che se la prendeva con Bush e tutto il post 11 settembre, passando per il Vote for Change del 2004 insieme a R.E.M., Bruce Springsteen e Jackson Browne, fino all’appoggio di Obama e al conseguente disprezzo per l’azione di governo di Trump, che in Seven o’clock viene definito addirittura “Stronzo Seduto”.

Alright, a firma del bassista Jeff Ament, è la prima parentesi necessaria per riprendere fiato, la prima boccata d’ossigeno dopo un inizio molto movimentato; il brano risente dell’onda lunga di Binaural e di canzoni come Thin air, Parting waves o la più recente Pendulum da Lightning bolt, ma nel complesso si difende bene e propone una ricca stratificazione di suoni più o meno acustici, con un testo che grazie ad alcune metafore molto evocative parla quasi profeticamente della capacità di riuscire a stare bene anche da soli, senza bisogno di altre persone intorno: “It’s alright, to be alone to listen for a heartbeat, it’s your own, it’s alright, to quiet up to disappear in thin air, it’s your own… It’s alright, to say no, be a disappointment in your own home, it’s alright, to turn it off, ignore the rules of the state, it’s your own…”.

Tra sonorità che richiamano molto da vicino i Pink Floyd di Comfortably numb, specie nell’uso delle tastiere in alcuni cambi melodici al suo interno (“Floodlight dreams go drifting past, all the lives we could’ve had… Distant loves floating above, close these eyes, they’ve seen enough…”) e con un Vedder mai così sugli scudi nei saliscendi di un cantato che richiama per certi versi quello del Boss Bruce Springsteen, Seven o’clock risulta fin dai primi ascolti non solo il pezzo più ispirato in assoluto di tutto Gigaton, ma anche uno dei brani migliori mai fatti dai Pearl Jam negli ultimi quindici anni. Oltre alla musica, colpisce la profondità di un testo ricchissimo di parole, che racconta dei giorni nostri così complicati (“For this is no time for depression or self indulgent hesitance, this fucked up situation calls for all hands, hands on deck…”), con tanto di un secondo riferimento ancor più diretto contro Trump e la sua amministrazione: “Sitting Bull and Crazy Horse they forged the North and West, then you got Sitting Bullshit as our sitting president, talking to his mirror, what’s he say, what’s it say back? A tragedy of errors, who’ll be last to have a laugh?”. Grazie anche a una produzione sublime, Seven o’clock è un crescendo emozionale unico, che tra strofe e aperture musicali nei ritornelli supera i sei minuti senza mai stancare, fino a giungere al finale e liberatorio “much to be done” che lascia i brividi dopo ogni ascolto: canzone migliore del disco a mani basse!

Never destination e Take the long way sono due punk-rock allo stato brado, due classici pezzi tirati che tanto hanno caratterizzato fin dagli esordi le produzioni della band di Seattle, anche se a dire il vero si fanno ascoltare senza lasciare grande traccia dietro di sé. Never destination apre la seconda metà del disco, un rock che strizza l’occhio agli Who di The real me e cita indirettamente sul finale il Tom Petty di Listen to her heart (specialmente quando Vedder canta “She was a singer in a rock-n-roll band, had command of all her voices, turned herself into a hologram, it all came down to choices…”), ma che di fatto nulla aggiunge né toglie alla carriera dei Pearl Jam in termini di canzoni veloci da tre minuti e via; ritmo serrato e un ottimo assolo di chitarra nel mezzo ad opera di Mike McCready, pensato appositamente per una dimensione on stage. Sulla stessa falsa riga si colloca anche la successiva Take the long way – scritta dal batterista Matt Cameron – che richiama invece e per certi versi quasi inevitabilmente i “suoi” Soundgarden; un brano anche questo pensato per la dimensione live, che sa di già sentito in casa Pearl Jam, pesta duro senza però farsi ricordare troppo a lungo: “I always take the long way, the long way, I always take the long way, that leads me back to you…”. A concludere una terzina di canzoni discrete ma non proprio memorabili si aggiunge Buckle up, forse il brano più debole e inconcludente di Gigaton; firmata dal chitarrista Stone Gossard, è una ballata un po’ troppo ripetitiva, dal testo davvero strampalato e cruento: “I got blood, blood on my hands, the stain of, of a human…”. Nonostante rimarchi il riff iniziale di Given to fly e si sforzi di sperimentare alcuni suoni più acustici, non regge il confronto con le analoghe composizioni tratte dai dischi precedenti, ma nemmeno con gli altri pezzi lenti di Gigaton, che neanche a farlo apposta arrivano appena dopo per ridare luce, linfa e slancio al finale del disco.

Ben altro registro caratterizza infatti il successivo trittico-capolavoro posto a conclusione dell’album, a completa trazione Eddie Vedder, che mette così il suo inconfondibile zampino su due delle ultime tre canzoni che chiudono musicalmente Gigaton in maniera opposta a come si era aperto.

Nello specifico, Comes then goes è una fantastica ballad acustica per voce e chitarra con Off he goes, Thin air e Thumbling my way dietro l’angolo a far da riferimenti più diretti, una canzone scritta completamente da Eddie Vedder che pur delineando un testo universalmente valido, ne fa soprattutto un sentito omaggio e un tributo all’amico Chris Cornell. Anche se non è mai stato affermato in nessuna intervista dal leader dei Pearl Jam, il brano non è altro che una lunga e straziante lettera dedicata al cantante, icona e leader di Soungarden, Audioslave e altri progetti musicali scomparso all’improvviso nel 2017, forse l’unico modo possibile per esternalizzare ed elaborare un lutto e un dolore altrimenti devastanti per Vedder e per tutti coloro che hanno amato la voce e le canzoni di Cornell: “Where ya been? Can I find a glimpse of my friend, don’t know where or when one of us left the other behind, divisions came and troubles multiplied, incisions made by scalpel blades of time… comes then goes, comes then goes… Is this you? Here I stand, intense recollections of pain, self-neglecting again like you, I keep it in, thought you found a game where you could win, it’s all vivisection in the end… comes then goes, comes then goes…”. Un capolavoro totale!

In bilico fra il songwriting più cantautorale di Springsteen e certe atmosfere più ariose care ai R.E.M., così come a certi episodi di Into the wild del Vedder solista (Hard sun, Rise, No ceiling e Tuolumne su tutte), Retrograde è un altro ottimo brano che resta in testa fin dai primissimi ascolti, grazie a un ritornello struggente: “Stars align they say when things are better than right now, feel the retrograde spin us ‘round, ‘round… Seven seas are rising, forever futures fading out, feel the retrograde all around, ‘round…”. Scritta dal chitarrista Mike McCready, Retrograde è una bellissima rock-ballad che ancora una volta mette in risalto la forza del collettivo Pearl Jam, oltre che a vantare un testo che è il più esplicito di tutto Gigaton in fatto di ambientalismo e cambiamenti climatici: “Comes the summer rain, cue the lightning and far off thunder again, projecting through the clouds and meditations, lifting out in the sound… the more mistakes, the more resolve, it’s gonna take much more than ordinary love to lift this up…”.

L’epilogo del disco è affidato a River cross, un commiato volto alla speranza nonostante tutto, epico e solenne sia nel testo che nella musica, come necessita il finale di un disco del calibro di Gigaton: “Wide awake through this deepest night, still waiting on the sun as the hours seem to multiply, find a star to soldier on living beneath a lion’s paw, knowing nothing can be tamed can be tamedI want this dream to last forever, a wish denied to lengthen our time, I wish this moment was never ending, let it be a lie that all futures die…”. Scritta e già proposta dal vivo da Vedder nel suo ultimo tour solista con solo l’ausilio di un pump organ – e qui il santino di riferimento torna ad essere quello del vecchio e tanto caro “zio” Neil Young, oltre che alcune produzioni di Peter Gabriel – nel suo lento incedere si aggiungono qua e là gli altri strumenti della band, che cuciono le note giuste per un sound inedito per il gruppo e un testo di grande intensità e profondità, con tanto di riferimenti poco teneri nei confronti della classe politica statunitense: “While the government thrives on discontent and there’s no such thing as clear, proselytizing and profitizing as our will all but disappears, folded over, forced in a choke hold, outnumbered and held down and all these talk of rapture look around at the promise now, here and now, can’t hold me down…”. Ipnotica e magnifica conclusione, River cross lascia in bocca quel soffuso effetto di necessaria e struggente malinconia che fa venir voglia di ripartire subito da capo con l’ascolto di tutto il disco… e già questo elemento basterebbe per affermare che i Pearl Jam hanno vinto ancora una volta la scommessa di pubblicare il loro disco più lungo di sempre.

Sarebbe stupido oltreché anacronistico aspettarsi che i Pearl Jam di Gigaton possano essere ancora quelli esplosivi e incendiari degli esordi di Ten, Vs. o Vitalogy; non sono più nemmeno quelli spiazzanti e inaspettati di No code o della perfezione stilistica dei tempi di Yield, né tantomeno quelli della sperimentazione sonora di Binaural; per fortuna c’è ancora qualche traccia della rabbia straripante di Riot act, unita alla spigolosa solidità di certi brani dell’omonimo Avocado; qua e là si percepiscono ancora echi e rimandi ai ben più commerciali e recenti Backspacer o Lightning bolt, insieme alla sempre più evidente mano del Vedder solista di Into the wild.

Eppure i Pearl Jam di Gigaton sono ancora quei five against one dei tempi che furono, sebbene e inevitabilmente cresciuti e maturati nel corso del tempo, che varcata la soglia dei cinquant’anni hanno ancora voglia di metterci la faccia e rimettersi in carreggiata per tenere acceso il sacro fuoco del Sogno americano, caricandosi sulle spalle il peso e la responsabilità di dar voce alle istanze e alle cause che maggiormente gli stanno a cuore. Gigaton in questo senso, rispetto agli ultimi lavori in studio della band di Seattle, alza l’asticella in termini qualitativi di suoni e arrangiamenti, risultando un disco molto più studiato e ragionato, frutto dei parecchi anni di lavorazione e del cambio in sala di regia, con il passaggio della produzione dalle mani di Brendan O’Brien a quelle di Josh Evans; fra le sue tracce si riscontra una rabbia più matura di quella originaria, non più l’urgenza adolescenziale che urlava in faccia al mondo le incomprensioni di un’intera generazione, bensì l’allarme più adulto nei confronti dell’umanità intera, messa sempre più seriamente in pericolo dai cambiamenti climatici, ambientali, sociali e politici in atto…. e visti i tempi bui che stiamo attraversando, tra stravolgimenti mondiali e inaspettate emergenze sanitarie, sapere che ci sono ancora band come i Pearl Jam animate da questa passione e sulle quali si può contare incondizionatamente non è assolutamente cosa da poco.

Matteo Manente

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