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“L’infinito” al di qua della siepe: il gran ritorno di Roberto Vecchioni

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LECCO – Un disco di Roberto Vecchioni non è mai banale: potrà apparire lento, pesante o addirittura noioso per chi non è abituato all’arte del Professore, ma tra le sue pieghe ha sempre la capacità di dire qualcosa di non scontato, di far pesare le parole usate e i concetti espressi attraverso le canzoni. Tutto questo vale naturalmente anche per L’infinito, l’ultima produzione in studio del cantautore milanese. Si tratta di una sorta di concept album sulla bellezza della vita che richiede tempo per essere ascoltato, assimilato e infine apprezzato nelle sue molteplici sfaccettature. Un disco compatto e completamente d’autore come si faceva negli anni ‘70, con dodici tracce inedite che sono lo svolgimento di un unico tema principale: amare la vita per quello che è, celebrandola e raccontandola attraverso le storie di persone realmente esistite, persone che con il loro esempio hanno dimostrato come sia possibile battere il destino semplicemente vivendo fino in fondo i propri giorni, accettandone gli aspetti più duri e rallegrandosi per quelli più felici. Così, canzone dopo canzone, ecco passare in rassegna uomini e donne del calibro di Alex Zanardi (Ti insegnerò a volare), la mamma di Giulio Regeni (Giulio), Papa Bergoglio (Canzone del perdono), la combattente curda Ayse Deniz Karacagil (Cappuccio rosso), Italo Calvino (Una notte, un viaggiatore) ma soprattutto quel Giacomo Leopardi (L’infinito) del quale non a caso il professor Vecchioni ha scelto di raccontare l’ultima fase di vita, quella del soggiorno a Napoli come esempio più assurdo e paradossale per parlare della felicità del vivere. Eppure, anche all’emblema del pessimismo per definizione come Leopardi riesce di addolcirsi, di sconfiggere in parte la visione negativa dell’esistenza, fare tregua col dolore e capire che la vita ha anche un senso (“E per la prima volta da quando sono al mondo non muore il dì di festa, non chiedo e non rispondo, tutto passa e non resta, si fa cenere e fumo, eppure alla ginestra le basta il suo profumo…”). Tutto questo Vecchioni lo sa bene e non per niente arriva a ipotizzare che l’infinito di leopardiana memoria non sia soltanto al di là della famosa siepe, ma che sia soprattutto dentro di noi, nelle nostre emozioni e nei gesti che compiamo ogni giorno: l’infinito e la bellezza di questa vita – dice Vecchioni con questo disco – stanno al di qua della siepe, dipendono da noi e dalla nostra capacità di dare un senso alle nostre azioni e di reagire positivamente agli scherzi del destino che è sempre in agguato.

L’infinito è il classico disco alla Vecchioni, con tutti i pregi (molti) e tutti i difetti (pochissimi) che questo comporta, un disco volutamente fuori dal tempo e legato al mondo della canzone d’autore che non c’è più – in questo senso non poteva esserci duetto più azzeccato di quello con il collega Francesco Guccini in Ti insegnerò a volare – un disco quasi anacronistico per il modo in cui è scritto, arrangiato e cantato, ma dannatamente riuscito. L’infinito raccoglie la summa del pensiero e dei temi da sempre cari a Vecchioni e spesso al centro della poetica del suo canzoniere: in Formidabili quegli anni, partendo da un libro di Mario Capanna, canta la stagione del ‘68 focalizzandosi sul ricordo di quanti sogni e desideri ci fossero in quel movimento (“Come zombie di un passato che sembrava primavera… ed è qui oggi, stasera che il riflesso fa memoria e lo fa per chi non c’era, perché fu una bella storia…”), sulle conquiste ottenute a fatica (“E le libertà che avete mica c’erano a quei tempi, noi ci siamo fatti il culo, tocca a voi mostrare i denti…”), ma condannandone senza indugio l’epilogo rabbioso e violento culminato nel terrorismo e nelle stragi (“Non vi passi per la testa che si celebri il terrore, noi siam quelli della festa con il vino ed altre sole…”). Altro tema basilare per Vecchioni è l’amore: quello fatto di passione e di slanci è lo stesso e coesiste con quello più sereno e maturo in Ma tu (“Io l’ho imparato l’amore, cammina nel tempo ed è tutta un’altra cosa, non è tempesta e furore, è la donna che aspetta sulla porta di casa…”), mentre in Ogni canzone d’amore il cantautore immagina con un po’ di fantasia che tutti i poeti di ogni tempo avessero sempre cantato di sua moglie (“Ogni canzone d’amore dall’alba del mondo era scritta per te, ma trovatori e poeti cantavano un’altra, chissà poi perché… ma son sicuro lo giuro che in tutte le donne del mondo vedevano te…”).

Una notte, un viaggiatore, oltre che parlare di se stesso e di tutti noi quando scendiamo alla stazione della vita, deve l’ispirazione a Calvino (“E caccio alla rinfusa dentro il cuore ogni cosa che mi ha vissuto intorno, e se ho sognato di chiamarla amore non lasciatemi solo in questo amore ch’è tutto quel che ho e mi pesa tanto, ma è la sola valigia che si può portare una notte d’inverno un viaggiatore…”), mentre il poeta greco Costantino Kavafis – lo stesso che per una coincidenza nemmeno troppo fortuita ispirò Guccini anni fa nella composizione della sua Odysseus – compare in Ti insegnerò a volare (Alex), cantata proprio con il Maestrone di Pavana e dedicata ad Alex Zanardi quale esempio più autentico del saper amare la vita e reagire al destino avverso: “Qui si tratta di vivere, non di arrivare primo e al diavolo il destino… mica sono le stelle a farlo e i santi men che meno, te lo fai tu il destino… e se non potrai correre e nemmeno camminare ti insegnerò a volare…”. Elementi autobiografici affiorano in Come è lunga la notte, cantata in duetto con Morgan (“E’ stata lunga questa notte a fare il guitto da baraccone, a pianger sopra le parole morte e poi tremare per una canzone…”), mentre la conclusiva Parola ricorda quanto per il cantautore quello della scelta di un linguaggio specifico sia una questione di non poco conto, una questione da troppi però sottovalutata (“Dai buffoni di ieri che oggi sono signori mi hai guardato le spalle, sei dentro me, ma io non posso perderti, non posso credimi tenerti forte… parola, amore mio chi t’ha ferita a morte?”). Attualità e impegno civile emergono in Cappuccio Rosso – dedicata ad Ayse Deniz, la ragazza curda morta in Siria mentre combatteva contro l’ISIS (“Qui sparano, li sento e non li vedo, mi sparano e mi sa che mi hanno preso…”) – ma soprattutto in Giulio, struggente ballata dedicata al ricercatore Giulio Regeni cantata però dal punto di vista della madre, della sua dolcezza e del suo innato senso di protezione (“Ma cosa c’entra l’Africa stasera, ma cosa, cosa mi venite a dire, che l’hanno preso a botte e non sapete e non si può capire… ma no che vi sbagliate sarà un altro, vi confondete con un altro nome, non Giulio no, che a Giulio tutto il mondo voleva bene… Giulio è di là che dorme, Giulio è di là che dorme con i suoi sogni da bambino, Giulio è di là che dorme…”). Infine, riferimenti a Papa Francesco si possono trovare in Canzone del Perdono (“Perché non c’è niente nella vita di un uomo, niente di così grande come il perdono…”), mentre in Vai ragazzo c’è tutto l’amore di Vecchioni per il greco e la cultura classica oltre che, di riflesso, la convinzione che il futuro appartenga alle nuove generazioni, a quei “sogna ragazzo sogna” che tante volte ha già cantato: “Vai ragazzo, prendi il mondo, falli pure ridere ma in fondo tu ricorda, non c’è niente, niente di più greco del presente… Tieni il sole tra le dita, tu conosci l’alba della vita, non il loro sole spento, loro lo conoscono al tramonto…”.

L’infinito è un disco riuscito, sincero, decisamente maturo e per certi versi definitivo, se non fosse che per ora Vecchioni non ha accennato fortunatamente ad alcuna intenzione di ritrarsi dalle scene. Un album molto più spirituale che materiale, arrivato a cinque anni di distanza dal precedente lavoro e nel quale c’è tutto quello che da sempre sta a cuore al cantautore: impegno, affetti, amore, cultura, sogni, destino… insomma, tutti gli elementi che ci ricordano ogni giorno quanto sia bello e importante amare la vita che abbiamo a disposizione al di qua della famosa siepe “che da tanta parte dell’ultimo orizzonte il guardo esclude”.

Matteo Manente

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