ARCHIVIO – “A grandi bracciate nell’oscurità”
Viaggio alla scoperta della mostra insieme a Gaetano Orazio

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LECCO – «La mia pittura è sintetizzata in una passeggiata. Esco al mattino dalla mia grotta e vedo tutto: vedo il fango, vedo le pozze, ma vedo anche gli uomini, boschi di uomini». Una passeggiata, quindi: questa la metafora che Gaetano Orazio utilizza per sintetizzare la sua mostra di Lecco (a Palazzo delle Paure) A grandi bracciate nell’oscurità, che abbiamo visitato in compagnia dello stesso artista e che sarà aperta fino al 4 di settembre (qui l’articolo con le informazioni).

orazio8Iniziamo il viaggio. Fin dalle prime sale è subito evidente l’obiettivo della mostra curata da Barbara Cattaneo, ossia far conoscere il più possibile la sconfinata produzione dell’artista brianzolo d’adozione. Cosa difficile, pensiamo addentrandoci nell’esposizione, in quanto le opere del pittore non si incasellano, per ammissione e scelta dello stesso Orazio, in alcuna corrente artistica. Complica ulteriormente le cose, poi, la sua peculiare caratteristica di non seguire periodi pittorici determinati, ma di fare giorno per giorno, salvo rare eccezioni, quello che nei suoi dormiveglia immagina e percepisce. Sì, perché è questo il momento in cui Orazio crea, in attimi sospesi tra sonno e veglia nei quali, da quando ha smesso di lavorare in fabbrica, può liberamente immergersi. «Dipingo – ci spiega – solo sotto la spinta del dormiveglia. Da quando ho terminato di lavorare mi sveglio alle 6.30 e rimango a letto fino alle 10. In questo periodo cerco di interpretare ciò che è rimasto nel sogno e ciò che avverrà più tardi, legando così i sogni a una serie di cose reali».

OrazioTornando alla visita, è l’acqua l’indiscussa protagonista della prima sala. La tanto amata acqua che può essere, ad esempio, quella delle immersioni realizzate con resina trasparente e carboncino, quest’ultimo utilizzato per creare le figure. Il risultato è quello di far percepire a chi osserva la presenza del liquido, tanto da sentirsi sott’acqua con la figura rappresentata, che poi altri non è che lo stesso pittore durante le giornate passate alla sua Riva Bianca di Lierna. Ma di acqua sono anche le pozze incontrate da Gaetano Orazio durante le passeggiate in Brianza, come si vede, ad esempio, in Ermafrodita Imperfetto. Pozze, queste, che sono in grado di riprodurre ciò che sta loro intorno, molto spesso deformando la realtà che riflettono, proprio come nei dormiveglia citati. A completare il primo spazio della mostra è, infine, un quadro che rappresenta la visione di Orazio dell’amata Brianza, con i monti sullo sfondo e soprattutto con la sua esplosione di acqua, fatta di laghi e fiumi.

orazio1Passiamo nella seconda sala, mentre Orazio ci racconta della sua libertà espressiva dettata dal non aver nessun vincolo artistico e del fatto di non voler essere considerato un professionista della pittura. Qui l’attenzione è subito catturata da Sentinelle avanzate, dove figure spettrali si muovono in un paesaggio lagunare fatto di briccole e canali, quasi fossero fantasmi provenienti da un luogo indefinito. È in queste opere che troviamo il Gaetano Orazio più autentico, quello che riutilizza oggetti di scarto, come assi da muratore, e realizza i suoi lavori con materiali non convenzionali, quali alluminio e catrame fuso. orazio2Ancora più inquietanti, nella stessa sala, le due Guardie del corpo, realizzate ancora con gli stessi materiali e che sembrano più di altri lavori frutto del dormiveglia. «In origine le guardie – spiega – erano 17 e le avevo realizzate in un periodo (il 2008) nel quale mi ripetevo in continuazione durante i miei dormiveglia: “tu hai bisogno di una guardia del corpo”, quasi come un mantra. Non sono ovviamente belle figure quelle sognate e immaginate: il dormiveglia infatti deforma la realtà. E poi – continua –  guardie del corpo di uno che non ha i piedi ben piantati per terra non possono che essere strane».

A fare da contraltare a queste opere appare, sulla parete opposta, una serie che sembra contrastare la pesantezza dell’alluminio e del catrame. Si tratta dei quadri intitolati Leggerezza, realizzati con la stessa tecnica delle immersioni, ossia con resina e carboncino. In questo caso, al posto di essere immersi nell’acqua sembra di essere sospesi nel vapore acqueo. Dopo lo stato liquido, quindi, ecco che la figura dell’artista ora si muove a grandi bracciate nello stato gassoso.

orazio9Arriviamo alla terza sala, dominata da un vero e proprio bosco: una serie di fustelle dipinte di bianco in modo tale da ricordare efficacemente delle betulle. L’opera intitolata Boschi bugiardi prende le mosse da una poesia di Orazio, nella quale sottolinea come i boschi non diranno mai la verità, anche se l’artista fa di tutto per mostrarceli, persino dall’interno dei tronchi. «L’atmosfera del bosco – riprende – è indubbiamente affascinante, ma è più quello che portiamo noi rispetto a quello che ci danno loro. Ad esempio se siamo di buon umore ci sembrano meravigliosi, se invece abbiamo qualcosa che ci turba ci fanno cadere in veri e propri incubi». Completano la sala due quadri provenienti da collezioni private: l’inquietante Corpo estraneo e Scaglie Celesti. È soprattutto il primo dei due a colpire il visitatore. Qui Gaetano Orazio sembra partire dalla lezione di Pollock per poi deviare al suo solito modo, inserendo in un’opera per lo più informale una figura nera, oscura e come sempre senza braccia, «perché – spiega – le braccia le uso io per dipingere e per muovermi, come suggerisce il titolo della mostra, a grandi bracciate nell’oscurità». Oscurità che però non spaventa Orazio, ma anzi lo attrae: tutto il futuro per lui è oscuro, e questo lo intriga.

 

 

Scaglie celesti mette in luce, invece, un altro elemento naturale caro all’artista, quello della terra e del fango, che emergerà poi ancora di più nei lavori della sala successiva, con le opere della serie Suolitudine

orazio5Opere, queste ultime, che sono incentrate su un elemento primordiale: la terra, il suolo. Orazio sembra portarci all’origine del nostro pianeta e allo stesso tempo alla fine, ricordandoci, contemporaneamente, la Terra prima della comparsa degli esseri viventi e la fine della vita su questa. Appare calzante, qui, l’idea della curatrice di esporre accanto a quest’ultima serie due quadri di un ulteriore ciclo pittorico, intitolato Altritudine. Opere che sottolineano il desiderio di Orazio di cercarsi in altri elementi, di realizzarsi solo sentendosi altro. Sono lavori (sempre fatti con alluminio e catrame) che in alcuni casi hanno un alto livello di drammaticità, con figure che si staccano da blocchi di un materiale imprecisato. Una separazione che è, alcune volte, intrisa di dolore e sofferenza, ottenuta per mezzo di schizzi di rosso che ricordano il sangue.

Di tenore diverso l’ultima sala, dove il pittore, dopo aver scandagliato gli elementi naturali, si concentra sulla figura umana e sugli uomini in generale, ricordandone il loro essere insignificanti nei confronti della grandezza della natura. Minimantropica è infatti il titolo della serie che riproduce non più alberi e betulle, bensì boschi di figure umane. Tecniche e materiali sono quelli già incontrati, ma qui ecco farsi più evidente l’Orazio pittore, come nel caso del sognante e fiabesco Dedizione.

Circostanze infusorie è infine l’ultimo lavoro in esposizione e può rappresentare la sintesi di tutta l’opera dell’artista. Qui ci sono gli elementi che raccontano la poetica di Orazio: un nido, figure scure e senza braccia che incombono e la spirale che rappresenta la circolarità della vita. «Per esistere – ci racconta – tutto deve per forza gravitare attorno a qualcosa. Per vivere quindi bisogna muoversi. Quelli che non gravitano più sono coloro i quali credono, sbagliando, di possedere una verità assoluta, di avere sempre ragione e quindi nulla di nuovo da scoprire. Io, invece, sono a mio agio solo se riesco a spogliarmi da me stesso e dalla mia figura e a immergermi in quello che mi sta intorno, così da essere, come suggerisce il titolo dell’opera, in una grande infusione».

orazio7Eccoci giunti al termine della nostro viaggio e della nostra chiacchierata con Gaetano Orazio. Cosa resta, quindi? Resta la convinzione che questa esposizione sia sicuramente solo una sintesi del suo lavoro artistico, ma una sintesi senza ombra di dubbio ben riuscita. Emergono infatti tutti i temi cari al pittore, come l’amore per la materia, per la natura e per la sua Brianza, ma anche l’importanza della fanciullezza, intesa sia come immaginazione nell’infanzia che come fanciullezza dell’umanità, ossia quella scoperta e meraviglia che avevano gli uomini dell’età della pietra, quando, per la prima volta, hanno fatto i conti con una natura sconosciuta e misteriosa.

Una mostra, quindi, per conoscere meglio un pittore ormai sempre più a suo agio nel suo personale rapporto con un’arte fatta di materiali recuperati dal macero, catrame fuso e alluminio. Un’arte nata da dormiveglia che ispirano e che tornano, così ci ha raccontato l’artista, anche nel momento della creazione: una sorta di stato di trance che, per dirla come Phillippe Daverio, lo fa quasi somigliare a uno sciamano.

Daniele Frisco

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L'autore di questo articolo

Daniele Frisco

È il flâneur numero uno, ideatore e cofondatore del giornale. Seduto ai tavolini di un qualche bar parigino, lo immaginiamo immerso nei suoi amati libri, che colleziona senza sosta e che non sa più dove mettere. Appassionato di Storia e, in particolare, di Storia culturale, è un inarrestabile studente (!): tutto è per lui materia da conoscere e approfondire. Laurea? Quale se non Storia del mondo contemporaneo?! Tesi? Un malloppo sul multiculturalismo di Sarajevo nella letteratura, che gli è valso la lode. Travolto da un vortice di lavori – giornalista, insegnante di Storia, consulente storico e istruttore del Basket Lecco – tra una corsa di qua e una di là ama perdersi nel folk-rock americano, nei film di Martin Scorsese e di Woody Allen, nella letteratura mitteleuropea e, da perfetto flâneur, nelle strade della cara e vecchia Europa. Per contattarlo: daniele.frisco@ilflaneur.com