Dalla Praga di Jiří Kolář ai nuovi nazionalismi dell’Est Europa.
Intervista a Francesco M. Cataluccio

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LECCO – È uno dei più grandi conoscitori dell’Europa orientale e della Mitteleuropa, con particolare predilezione per la cultura polacca e per quella ceca. Stiamo parlando dello scrittore e saggista Francesco M. Cataluccio, lo scorso sabato 13 aprile protagonista alla Galleria Melesi di Lecco di una conferenza dedicata alla città di Praga e alla sua scena artistica e culturale. Un appuntamento organizzato in occasione della mostra delle opere dell’ artista ceco Jiří Kolář e di Alberto Casiraghy, allestita proprio nello spazio di via Mascari, e che ha visto Cataluccio proporre un affascinante affresco della capitale ceca, raccontandone il fermento culturale, i grandi scrittori e i personaggi legati alla sua storia. Abbiamo incontrato Cataluccio proprio in occasione del suo intervento: una chiacchierata che ha toccato diversi argomenti, dall’arte di Jiří Kolář alla scena culturale della Praga del dopoguerra, dalle problematiche dei paesi dell’Europa orientale ai nuovi nazionalismi. Un percorso interessante che, prendendo le mosse dalla figura Jiří Kolář, ha attraversato la storia artistica, culturale e politica di Praga, della Cecoslovacchia e di quell’Europa che si trovava al di là della Cortina di ferro, fino ad arrivare all’attualità e alla politica dell’Europa contemporanea.

La mostra visitabile alla Galleria Melesi è dedicata a uno degli artisti cechi più importanti e conosciuti al mondo, Jiří Kolář. Un personaggio molto legato alla città di Praga e al suo ambiente culturale…

Kolář vive a Praga ed è coinvolto da tutte le suggestioni di questa meravigliosa città, attraversata da diversi movimenti culturali e politici. Si tratta di un artista che per trent’anni è un letterato e poeta e che arriva al collage soltanto a un certo punto della sua vita. Un ottimo poeta, aggiungerei, ed è un peccato che non sia mai stato tradotto in italiano, come invece avrebbe voluto Angelo Maria Ripellino. Anche nel dopoguerra, Kolář si immerge nel milieu culturale di Praga, proprio negli anni in cui la città diventa forse la capitale più vivace a livello culturale di tutto l’Est Europa. La primavera di Praga parte infatti già all’inizio degli anni Sessanta, per poi finire drammaticamente nel ’68…

Jiří Kolář è stato un grande personaggio della vita culturale cecoslovacca del secondo dopoguerra, ma anche a livello politico non si è mai tirato indietro…

Certamente, è un artista dentro la Storia. Nel 1977 firma, infatti, il documento contro la repressione, Charta 77, e anche quando decide di vivere a Parigi rimane legato alle vicende del suo paese, fondando una casa editrice per scrittori e poeti cecoslovacchi. Potremmo dire che persino nell’esilio mantiene in suo impegno intellettuale e politico.

La Cecoslovacchia del secondo dopoguerra vive un grande fermento culturale e, nonostante sia un regime comunista che limita le libertà espressive, produce un’irripetibile scena letteraria, artistica e cinematografica…

Sì, diciamo che la Cecoslovacchia – in particolare la Boemia e la Moravia – è sempre stata un paese di cultura, dal Rinascimento all’impero austroungarico. Personalità come Freud o Mahler sono ad esempio di nascita morava e boema. Un grande retaggio culturale, quindi, con grandi maestri e grandi università. Un altro vantaggio della Cecoslovacchia rispetto ad altri paesi del centro Europa è inoltre quello che negli anni tra le due guerre è stata una democrazia, e non un regime autoritario.

Quali sono gli elementi più rappresentativi di questa cultura?

Elemento cardine di tutta la cultura ceca è il grande senso dell’ironia che si rivede nel teatro, nel cinema e nella letteratura. Un’ironia intesa come forma di messa alla berlina del potere e, in questo senso, il capolavoro di Jaroslav Hašek Il buon soldato Sc’vèik può essere l’esempio più chiaro di una resistenza passiva che si fa beffe del potere. Nelle produzioni culturali ceche non si affronta il potere direttamente, ma lo si ridicolizza, si fa finta che non esista e lo si prende in giro come se si fosse in birreria. Questa ironia è presente anche in molte opere di Kolář, ad esempio quando decostruisce i classici dell’arte, li rivolta e li taglia a listelle, trovando un modo per sfuggire alla dittatura del canone dell’arte con la A maiuscola.

Con la caduta dei regimi dell’Est Europa questa vivacità culturale, presente non solo in Cecoslovacchia, sembra però essersi affievolita. Quali sono le ragioni? Forse perché nei nuovi stati non sono saliti al potere quelli che di più si sono impegnati per abbattere i regimi comunisti, bensì una nuova classe dirigente formata spesso da uomini politici che si sono riciclati? La Repubblica Ceca di Havel può essere forse un’eccezione…

In Cechia Havel è stato sicuramente un garante per il gruppo di oppositori politici, in sintonia con gli ideali di Charta 77. In generale possiamo dire che i paesi dell’Est soffrano di problemi che coinvolgono tutto il mondo, sommati al fatto che si tratta di democrazie deboli, che si sono trovate dopo l’89 a votare per la prima volta dopo molti anni e con aspettative enormi rispetto al futuro. Proprio da queste grandi aspettative tradite è nato un sentimento di delusione e frustrazione nell’osservare l’estensione delle ineguaglianze. Per quanto riguarda il campo artistico, invece, una maggiore libertà si è accompagnata alla fine dei corposi finanziamenti statali, come nel caso del cinema ceco. Si è infatti passati dalla censura, ma con mezzi per fare film, a una nuova realtà in cui sei libero ma devi sottoporti alla dittatura del mercato, che magari ti impone un certo tipo di produzioni.

Nel suo libro “L’ambaradan delle quisquiglie” sottolinea come i paesi dell’Europa orientale rappresentino un’altra Europa, che fa da contrappunto ai grandi stati nazione dell’occidente. Oggi sembra però che paesi come la Polonia o l’Ungheria abbiano preso e fatto propri i difetti di quei grandi stati europei, ad esempio il nazionalismo. C’è una via d’uscita per questa situazione?

La speranza che le cose si evolvano c’è sicuramente. La Polonia è l’esempio più lampante di come questo tipo di governi ultranazionalisti o, come si dice oggi, sovranisti, a un certo punto siano destinati a deludere il loro elettorato, perché non possono mantenere quello che promettono. Non va dimenticato, però, che i paesi dell’Est hanno sempre visto nell’Europa una sorta di punto di riferimento. In parte è comprensibile una delusione per quello che avrebbe potuto essere e che non è stato, ma va anche detto che l’Europa ha investito in Polonia e in altri stati ex comunisti una quantità di denaro non paragonabile a quella stanziata per altri paesi. L’agricoltura polacca o l’industria ceca non si sarebbero infatti sviluppate senza l’Unione Europea. Detto questo, sono fiducioso che le cose cambieranno. Ci sono già dei segnali, si pensi alle ultime elezioni amministrative in Polonia, dove nelle grandi città ha vinto il centrosinistra, oppure alle recenti presidenziali in Slovacchia.

L’Europa unita riuscirà a contenere questo nuovo e allo stesso tempo vecchio dilagare dei nazionalismi, oppure è avviata verso una crisi irreversibile?

L’idea di Europa come la conosciamo oggi nasce dopo la seconda guerra mondiale per evitare ulteriori guerre e massacri. Si sono indubbiamente fatti numerosi passi in avanti, intervallati però da grandi sconfitte, prima fra tutte la guerra nella ex Jugoslavia, quando l’Europa non è stata in grado di fermare una guerra civile sul suo territorio. Nel complesso abbiamo comunque avuto dei risultati e non credo ci sia un’altra strada da percorrere, neppure per i paesi dell’Est; l’alternativa è quella di tornare a tanti piccoli staterelli che si fanno la guerra l’uno con l’altro, questo sino a quando il più forte finisce per mangiarseli tutti. Chiaramente l’Unione Europea deve essere riformata e ci sono molte cose che non vanno, eppure la soluzione non può essere quella di uscire e dire “io a casa mia faccio quello che mi pare”. La Polonia, ad esempio, da sola non farebbe niente: basta entrare in un supermercato di Berlino per trovare una grandissima quantità di prodotti polacchi.

Chiudiamo con un’ultima domanda sulla città di Praga. Oggi trova che la capitale ceca conservi ancora lo stesso fascino di un tempo, oppure si è ridotta a essere una città da cartolina, invasa dal turismo di massa?

Praga ha conosciuto un’evoluzione simile a quella di tutte le città d’arte, ma con la differenza che è stata molto rapida. Certo, vedere le magliette con la faccia di Kafka o un ristorante con il nome dello scrittore fa ridere, ma penso sia normale perdere una parte d’identità nel momento in cui arriva il turismo di massa. Il consiglio è quello di uscire dagli itinerari più battuti, di andare in periferia, di perdersi per le sue strade, oppure di scoprirla all’alba, quando non c’è nessuno. Così è ancora una città meravigliosa.

Proprio come un vero flâneur…

Esattamente.

Daniele Frisco

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L'autore di questo articolo

Daniele Frisco

È il flâneur numero uno, ideatore e cofondatore del giornale. Seduto ai tavolini di un qualche bar parigino, lo immaginiamo immerso nei suoi amati libri, che colleziona senza sosta e che non sa più dove mettere. Appassionato di Storia e, in particolare, di Storia culturale, è un inarrestabile studente (!): tutto è per lui materia da conoscere e approfondire. Laurea? Quale se non Storia del mondo contemporaneo?! Tesi? Un malloppo sul multiculturalismo di Sarajevo nella letteratura, che gli è valso la lode. Travolto da un vortice di lavori – giornalista, insegnante di Storia, consulente storico e istruttore del Basket Lecco – tra una corsa di qua e una di là ama perdersi nel folk-rock americano, nei film di Martin Scorsese e di Woody Allen, nella letteratura mitteleuropea e, da perfetto flâneur, nelle strade della cara e vecchia Europa. Per contattarlo: daniele.frisco@ilflaneur.com