“Grovigli?”: la ricerca di un ordine nel disordine del contemporaneo

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LECCO – “Grovigli”, metafora eloquente del nostro contemporaneo, viluppo inestricabile di contraddizioni che tuttavia ricerca un senso, una bellezza fatta di complessità, una forma nuova. “Grovigli”, come le tortuosità del pensiero che si perde di fronte a fatti cui non riesce a trovare spiegazione, di fronte a domande destinate a rimanere senza risposta. “Grovigli”, come il frutto indefinibile di una creatività che mal sopporta il limite della forma e la reinventa e la anima e la lascia libera di interloquire con lo spettatore.

Opere di Eva Sørensen e Gaspare

Opere di Eva Sørensen e Gaspare

È articolata e suggestiva la mostra collettiva Grovigli? Scritture, segni, sculture, inaugurata sabato 6 settembre presso la Galleria Melesi di Lecco e visitabile sino al 31 ottobre. E quel punto interrogativo un po’ beffardo sembra rivolgersi allo spettatore, sollecitare una sua partecipazione attiva; sembra volergli ricordare che l’opera d’arte si realizza pienamente solo nel momento della sua fruizione, quando uno sguardo si posa su di essa e si interroga sul suo significato, formula un’ipotesi. O magari, semplicemente, riscopre un’emozione.

Assai numerosi i partecipanti all’elegante vernissage; e piace pensare che anche i loro sguardi si siano intrecciati reciprocamente nello studiare le opere, come pure i loro passi, intersecati in percorsi caleidoscopici invisibili, e le loro voci e le loro domande e le spiegazioni degli artisti, “aggrovigliate” in un vivace brusio di sottofondo che dice che l’arte è ancora viva, e festosa, e dinamica. Soprattutto curiosa.

grovigli1Una bella opportunità, quella di confrontarsi con gli artisti presenti e ascoltare da loro i segreti dell’ispirazione, le emozioni del trasmettere un’idea in materia. Impagabile, e non sempre scontata, la possibilità di un confronto diretto, per vedere confermate o, perché no?, smentite le proprie deduzioni interpretative.

La mostra raccoglie opere di artisti appartenenti a generazioni, nazionalità e scuole assai eterogenee, accomunati però tutti da una ricerca costante sul tema del “groviglio”, nelle sue diverse declinazioni. Un groviglio che scompone e destabilizza, ma mai va fatto coincidere con la casualità e che anzi cerca, paradossalmente, un ordine nel caos, una regola nell’irregolarità.

Ecco, allora, troneggiare al centro della galleria Codice muto di Corrado Bove (Bergamo, 1974), che rinnova il linguaggio scultoreo e lo rende leggero e semitrasparente grazie all’utilizzo di rete metallica e smalti, e che dietro una caoticità solo apparente trova espressione nell’armonia giocosa tra la corporeità del manufatto e la mutevolezza della sua ombra.

Risultato di un “gioco” coltissimo può essere pure considerato Ur-schrift di Irma Blank (Celle, 1934), un vorticoso aggrovigliarsi di linee di inchiostro blu, tanto fitte da saturare la superficie. Effettuata impugnando un mazzo di biro in ciascuna mano e muovendolo in senso rotatorio, senza precise traiettorie da seguire, in modo alogico e immediato, l’opera si fa simbolo di uno “Scrivere che è la via dell’essere. Scrivere è lasciarsi andare… alla scrittura, alla vita. All’oblio. È consegnarsi al flusso del tempo, senza opporre resistenza”, come dichiara l’artista.

Tracce ben scandite di inchiostro di china, più spesse e nitide, questa volta, e simili alle venature del legno caratterizzano 13-ap-08 di Eva Sørensen (Herning, 1940), che realizza ciascun disegno in un’unica seduta per dare il massimo risalto alla dimensione del “fare” arte, dell’agire artistico che crea e dà forma.

grovigli4Il gesto puro e “im-mediato”, non mediato da una progettualità avvertita, forse, come limitante, conduce la mano di Emanuele Becheri (Prato, 1973), che nel suo Carta piegata #19, con l’ausilio di carta carbone, traccia segni, al buio, in modo che l’opera da quel buio nasca solo quando è perfettamente compiuta, e che della magia creativa che in quel buio è avvenuta rechi segni nelle incisioni della parte superiore del foglio. Crittogrammi, quasi. Quasi invisibili ormai, come una suggestione o un inganno della mente.

Ancora l’inchiostro è protagonista della proposta di Valentino Albini (Reggio Calabria, 1959): un inchiostro disciolto e reinventato, tuttavia, che in Arborea 08, dissolti i caratteri tipografici e le immagini in cui lo imprigionavano le pagine di una rivista, rinasce in una forma che esso stesso sceglie per sé, quasi a volerci ironicamente mettere in guardia dalle forzature cui è soggetta la comunicazione mediatica attuale.

In Eye, una macchia di inchiostro nera, al di sopra della quale ammicca un occhio inquietante, annulla le parole della pagina del quotidiano russo scelto a supporto: strumento di propaganda contro il quale Dmitrij Prigov (Mosca, 1940-2007), fra i più grandi artisti concettuali russi, si oppone con la forza dirompente e furiosa della propria espressività.

Un’analoga violenza si ritrova in Rote Versuche di Arnulf Rainer (Baden, 1929), protagonista dell’Azionismo Viennese degli anni Sessanta: un autoritratto in bianco e nero è violato da campiture di colore cupo e suggerisce la tormentata ricerca d’identità dell’artista (e dell’uomo in genere), tra razionalità e ragnatele del subconscio.

Ma se l’uomo è straniato e spersonalizzato, perso in una realtà che fatica a comprendere, allora anche la città (la mappa di una città, strumento di orientamento per eccellenza) tende a perdere i propri contorni e a trasformarsi in labirinto, come in Milano V di Elisabeth Scherffig (Düsseldorf, 1949), in cui due mappe urbane e il tracciato della rete internet del capoluogo lombardo si sovrappongono e reciprocamente si mescolano, in una nuova entità, che è geografica e mentale insieme.

grovigli3Non meno coinvolgente l’acrilico su cartone Senza titolo di Emilio Scanavino (Genova, 1922 – Milano, 1986), che offre qui un’opera emblematica della sua produzione e della sua intera estetica, fondata su un alfabeto pittorico fatto di segni, grovigli, nodi di filo spinato, psicologicamente acuminati e taglienti come il materiale che rappresentano.

La ricchezza della mostra Grovigli? consiste anche, però, nella pluralità dei materiali utilizzati: ecco, dunque, il semplice filo di lino nero scelto da Gaspare (Terlizzi, 1983) per comporre il suo Senza titolo (croce di lino nero), che si annoda a formare una croce greca, perfetta come le misure rinascimentali eppure mutevole e ricomponibile in infiniti modi diversi, come infinite possono essere le trasformazioni dell’individuo, o forse le sue maschere.

Cordicelle annodate e variopinte compongono La lettera di un funambolo, “poema a nodi” di Jirì Kolàr (Protivin, 1914 – Praga, 2002): un divertissement che unisce materia tridimensionale e bidimensionalità della tela e compone una poesia senza parole, fatta di pura evocazione. Ma anche in questo caso non è la corda dritta e in certo modo rassicurante del funambolo a parlare allo spettatore, ma sono frammenti di corda estranei gli uni agli altri e ritorti su se stessi.

Più massiccio il grande Quipus di Jorge Eielson (Lima, 1924 – Milano, 2006), che attinge alla tradizione precolombiana per rielaborarla e proporla, nell’oggi, come linguaggio rinnovato ma pur sempre denso di valori archetipici.

Perfettamente integrato nello spazio, elegante oggetto artistico che quasi si confonde con l’arredo, Chiaro di Eduard Habicher (Malles, 1956) unisce materiali eterogenei quali l’acciaio e il vetro e ridisegna lo spazio, sfruttando anche gli effetti di luce che il cristallo riflette in modo sempre diverso.

E infine Strutturazione fluida di Gianni Colombo (Milano, 1937 – Melzo, 1993), che porta al suo apice l’esaltazione della fluidità formale e del “caos calmo” che è possibile riconoscere quale cifra distintiva di questa mostra: una striscia in acciaio racchiusa entro un pannello in compensato, che lo spettatore è chiamato a mettere in movimento attraverso un meccanismo elettromeccanico. Ed ecco che l’osservatore si avvicina quanto mai allo status di creatore, in una sintesi esemplare di ciò che può intendersi per “fruizione” nel contemporaneo. Una fruizione mai statica, ma sempre pronta a reinventare l’opera secondo la propria personale percezione.

 Katia Angioletti

 

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Katia Angioletti