La danza contemporanea in spazi non convenzionali.
Il direttore artistico Filippo Ughi racconta il festival “Caffeine”. L’intervista

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BRIANZA – Sono stati i primi a portare un festival di danza contemporanea sul territorio e dopo dodici anni continuano a proporre spettacoli innovativi nei comuni della Brianza, anche se con una nuova prospettiva. Stiamo parlando dell’associazione Piccoli Idilli di Merate, organizzatrice da più di un decennio di Caffeine – Incontri con la danza, la rassegna partita lo scorso 5 settembre e che fino al 26 porta la danza contemporanea in spazi non convenzionali della Brianza, dalle piazze ai parchi, dai giardini alle ville. Da sempre direttore artistico della manifestazione, Filippo Ughi ci racconta un po’ della dodicesima edizione e fa un bilancio di questi anni. 

“Caffeine” spegne, quest’anno, dodici candeline. Ripercorriamo un po’ la storia di un festival unico nel suo genere… 

Caffeine nasce nel 2010 come festival di danza contemporanea e con l’obiettivo di proporre spettacoli di qualità e con artisti internazionali, in scena in spazi diversi da quelli solitamente adibiti alla danza, così da valorizzare anche le bellezze del nostro territorio.  

Perché proprio la danza contemporanea? 

Negli anni Ottanta la danza stava cambiando, stava uscendo dai teatri e dai codici. Nel 2010 questo fenomeno era talmente diffuso che abbiamo ritenuto fosse il momento di far conoscere alcune proposte interessanti anche al nostro territorio, proponendo spettacoli che mettessero al centro non più soltanto il corpo del danzatore, ma anche quello delle persone presenti alla performance. Da qui anche l’idea di portare gli spettacoli non solo in spazi oggettivamente belli come i parchi o le ville, ma anche in luoghi del vivere quotidiano come una piazza. In questo modo l’astrazione del gesto artistico ha potuto empaticamente riguardare anche la vita di tutti i giorni.  

Negli ultimi due anni, segnati dal Covid-19, sembra che il festival abbia cambiato prospettiva… 

Sì, negli ultimi due anni la rassegna è profondamente cambiata, la pandemia che ci ha permesso di ripensare il festival in modo diverso. Da un lato abbiamo continuato a cercare spettacoli innovativi, ma dall’altro abbiamo voluto intrecciare relazioni più profonde con i territori che ci ospitano e con le compagnie a cui ci siamo trovati particolarmente affini. Proprio per questa ragione abbiamo provato a mettere compagnie, artisti e comunità ospitanti in una connessione che andasse al di là del puro “mi vedo lo spettacolo e basta”, permettendo alle compagnie, ad esempio, di restare sul luogo non solo il pomeriggio prima dello spettacolo, ma anche nei giorni precedenti, condividendo con il pubblico il momento della creazione artistica. Una cosa naturalmente non semplice e non sempre possibile, ma secondo noi necessaria sia per conoscere meglio le compagnie e tenere con loro un rapporto artistico e culturale, che per coinvolgere maggiormente i territori. Un’altra azione che va in questa direzione è quella di portare per due anni consecutivi una stessa compagnia ma con uno spettacolo diverso e con un nuovo coreografo: un modo per creare legami più forti. 

Un cambiamento radicale.

Sì, direi un vero e proprio cambio di paradigma. Prima più spettacoli nuovi c’erano e più eravamo orgogliosi del festival, oggi è ancora vero ma solo in parte, perché le esigenze e gli obiettivi sono differenti.  

Tornando alla storia di “Caffeine”, è stato difficile far comprendere al pubblico una forma d’arte diversa rispetto a quelle più diffuse? 

In questi anni abbiamo dovuto costruire un pubblico per spettacoli di danza contemporanea: il nostro territorio non ne aveva mai ospitati, salvo rare eccezioni. Il pubblico all’inizio era diviso in due categorie: c’era chi passava e vedeva casualmente quello che stava succedendo, e c’era un pubblico teatrale più classico, abituato a vedere gli spettacoli di danza solo in città. Negli anni sono state sviluppate delle azioni più specifiche, coinvolgendo realtà e associazioni per pensare insieme a quali potessero essere gli spettacoli più adatti al territorio, sempre naturalmente legati alla danza e ai temi del corpo e della fisicità. Tutto questo ha portato alla formazione in 10 anni di un pubblico che segue costantemente Caffeine, che per noi è un patrimonio, qualcosa di gigantesco, soprattutto se pensiamo a dove viviamo e alla scarsa conoscenza di questo tipo di linguaggi. È stata una vera e propria sorpresa. 

L’emergenza Covid ha cambiato le cose anche in questo senso? 

Durante il Covid abbiamo visto questo patrimonio fortemente a rischio e siamo passati per il secondo anno consecutivo alla gratuità, sia per gli spettacoli che per i laboratori. Si tratta di un ulteriore sforzo economico, ma abbiamo preferito mandare un messaggio: Caffeine non si ferma

Veniamo all’edizione di quest’anno: quali sono gli spettacoli da non perdere? 

Sicuramente Game Theory della Joshua Monten Dance Company di Berna, che torna a distanza di un anno con uno spettacolo sul gioco d’infanzia che diventa coreografia. Sempre la compagnia internazionale propone anche Afro-Bavarian square dancing, una quadriglia afro-bavarese nella quale è possibile la partecipazione del pubblico. Altro evento di punta e altri ospiti internazionali sono  Alicja Ziolko e Benny Bartels, ballerini di tango in arrivo dalla Norvegia e dall’Olanda che sabato 18 settembre proporranno All the audience’s a stage. I due artisti tornano dopo 10 anni con una creazione originale per Caffeine. Anche in questo caso, nei bis proveranno a invitare il pubblico con l’ausilio di hula hoop, attrezzi in grado di mantenere il distanziamento, facendo allo stesso tempo sopravvivere la danza e il tango. I performer staranno tre giorni a Usmate e saranno ben visibili nel parco nei giorni precedenti l’esibizione, in linea con il nuovo paradigma di Caffeine. Infine, segnalo anche lo spettacolo della Compagnia QB, una delle poche che propone pièce di danza per l’infanzia, e la performance dedicata a Woody Allen di Kinesisdanza, in programma a Montevecchia. 

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L'autore di questo articolo

Daniele Frisco

È il flâneur numero uno, ideatore e cofondatore del giornale. Seduto ai tavolini di un qualche bar parigino, lo immaginiamo immerso nei suoi amati libri, che colleziona senza sosta e che non sa più dove mettere. Appassionato di Storia e, in particolare, di Storia culturale, è un inarrestabile studente (!): tutto è per lui materia da conoscere e approfondire. Laurea? Quale se non Storia del mondo contemporaneo?! Tesi? Un malloppo sul multiculturalismo di Sarajevo nella letteratura, che gli è valso la lode. Travolto da un vortice di lavori – giornalista, insegnante di Storia, consulente storico e istruttore del Basket Lecco – tra una corsa di qua e una di là ama perdersi nel folk-rock americano, nei film di Martin Scorsese e di Woody Allen, nella letteratura mitteleuropea e, da perfetto flâneur, nelle strade della cara e vecchia Europa. Per contattarlo: daniele.frisco@ilflaneur.com